Una mattina d’aprile l’Appuntato Michele, amico della mia famiglia e di tutte le altre del paese, stava parcheggiando davanti all’ufficio postale per ritirare la posta indirizzata alla caserma. Io ero lì, a trenta metri. I rapinatori uscirono di corsa e gli tirarono quattro colpi, due nel petto.
Quel giorno capii che le pistole non fanno solo “Pam”.
Siccome ieri è passato a trovarmi Carlo e siccome sta piovendo e mi sto godendo la pigrizia, ripropongo questo brano tratto da Germogli.
LM
—
«Abbiamo ammazzato tutti gli insetti e ci lamentiamo se arriva il miele dalla Cina, che fino a dieci anni fa c’erano batterie di arnie, sul costone là in alto. Ti sembra benessere, questo? Che Leonardo non sa distinguere un carpino da un olmo e neanche gli interessa? “Alberi, nonno, sono alberi!”, mi risponde ridendo. E allora sai cosa ti dico? Mi sto facendo un bosco mio, dietro casa, sul pezzo di terra che mi ha lasciato mio padre. Ogni tanto raccolgo piantine di acero, sorbo, frassino, faggio, nocciolo, ciliegio, pioppo e le metto là. Sparse. Quel che attecchisce bene e quel che si secca non lo pianto più. Secondo me vien su un bosco misto come quelli di una volta, di quelli bassi e profondi che tenevano su i versanti. Buoni per le api e per gli storni».
Fa una pausa e mi punta gli occhi nei miei.
«Tu cosa ne pensi, professore?».
.
È spaesato a casa sua, Carlo, quinta elementare, 78 anni di vita. È un eroe romantico, Carlo, di quelli che non chiedono quanti sono i nemici, ma dove sono.
Vorrei rispondergli con una riflessione. Con cose intelligenti ma, sarà forse per il vino a stomaco vuoto, esclamo semplicemente: «Orca, Carlo, ma allora sei un montanaro resiliente!».
«Residente? Ancamassa! Io e la mia famiglia abitiamo qui da sempre. Il posto più lontano che ho visitato è stato col militare: fanteria. Castiglione dei Pepoli, Tos-ca-na!».
Manàta sul tavolo e, a seguire, bestemmia decisamente esclamativa.
Neve pesante: neve d’aprile. Gocce gelate nel secchio, in cortile.
Scavalcano il bordo e colano giù, in un filo sottile. Alcune rallentano, riflettono pigre e bisbigliano piano.
Guardano in alto, annusano il muschio e quel sasso un po’ strano.
“Fermiamoci qui, dai. Perché andare lontano?”. Le altre, impazienti, raggiungono quelle là in fondo. Boh … saranno parenti. Si abbracciano per qualche secondo e si raccontano cose. Del tempo, del viaggio davanti e poi giù tutte assieme, “Alla scoperta del mondo!”. Forse stanno andando più giù, al bosco giulivo. Sì, eccole là! Me lo sentivo. Nella vasca di sasso a schizzarsi, a sguazzare in quel modo selvaggio. A godersi un po’ il sole in attesa di altre. Come rondini prima di un viaggio.
Restate un po’ qui, gocce belle. Daiiii, che ho appena sfornato le ciambelle! Sì, sì, lo so, dovete andare. E allora buon viaggio, gocce care.
Gorgoglii e mulinelli, capriole fra i sassi e poi salti e saltelli. Profumo di menta, ombra di pioppo e tramonti magenta. Godetevi tutto, anche sbagliando. Ma fate attenzione, mi raccomando! Cercheranno di arginarvi, imbrigliarvi, catturarvi. “Mille euro al litro! Acqua purissima, benedetta. Plin plin, acqua di vetta”. Di dragarvi, drogarvi, scavarvi, rapirvi. Sporcarvi, spurgarvi, macchiarvi, infangarvi. Pisciarvi, infettarvi, marcirvi, ammalarvi. Assuefarvi, ecco. Volevo dire assuefarvi. Altamarea, bassamarea. Altamarea, bassamarea. Finché vi sembrerà dolce anche il mare. E allora, se vi dovesse capitare, guardate su in alto e lasciatevi andare. Aprite le braccia, fate un sorriso rotondo e un respiro profondo, una nebbia sottile, una nuvola lieve e infine la neve. Neve d’agosto. Il secchio, oramai lo sapete: è al solito posto.
Il treno è in ritardo, la toilette è occupata e a me scappa la pipì. “… general manager di una multinazionale con sede a Bergamo. Sa, coordino un gruppo di 82 persone e sono sempre in giro, adesso sto andando ad un meeting per un innovation project che dovrebbe permetterci di assorbire un’azienda locale, nel pomeriggio ho una call con lo studio legale che seguirà questa cosa e domani volo a Bruxelles in giornata”.
Dieci minuti fa gli avevo chiesto cosa fa nella vita. Così, tanto per parlare.
Samir è arrivato qui da un posto che non è neanche un paese, più che altro è una manciata di case lungo un uadi, un torrente stagionale in mezzo al deserto.
Me li ricordo bene quei posti, ci sono stato per un mese intero quando avevo vent’anni con Enrico e Sergio, che suo padre lavorava al metanodotto diretto in Italia e noi ne abbiamo spudoratamente approfittato.
Samir è partito quindici anni fa dalla Tunisia, da solo, senza una destinazione precisa, senza soldi e con un italiano approssimativo imparato dalla Rai: “Pappamiao, il filetto gustoso per il tuo amico peloso”, “Granny, l’anticellulite più amata dalle ottantenni”, “Sonnecchia, la poltrona wifi per tutto il relax che vorrai (con una friggitrice in omaggio, che non si sa mai)”.
Da quel barcone carico di sogni Samir immaginava una casa con le tapparelle elettriche, il water che si svuota pigiando un pulsante, un salotto in alcantara azzurro, il frigorifero pieno di salmone selvaggio, un gatto peloso e una ragazza come quella dell’acqua tonica.
Si è arrangiato per qualche anno a tirar su pomodori sotto a un sole che picchiava come un martello, l’identico sole che baciava i bagnanti belli poco lontano.
Coi pochi soldi messi da parte è arrivato qui, a sgobbare per un vivaista bio, ecosostenibile e carbon-neutral che con una mano lo pagava e con l’altra si faceva dare indietro i soldi per l’uso di un appartamento dove dormiva con altri sette nordafricani. Però il frigorifero c’era. Piccolo, ma c’era.
Poi si è spostato in questo paese di campagna e si è messo a fare kebab di fianco a un barbiere che si è tatuato l’anno di nascita su un polpaccio: MCMXCII. 1000 + (1000 – 100) + (100-10) + 1 + 1. Totale 1992. Caro barbiere con le meches, a me i numeri romani li ha insegnati il signor Barbetta nel suo negozio di stoffe quando avevo 7 anni.
I kebab di Samir sono semplici, saporiti. Un abbondante strato di fettine d’agnello oppure di tacchino, che taglia con una specie di rasoio elettrico da un rullo verticale di carne pressata, verdure varie e tante salse diverse da cospargerci sopra. L’harissa è uno spettacolo.
Li fa a modo suo, perché mica li sapeva fare i kebab, lui. Ma neanche noi sappiamo come dovrebbero essere, giusto? È come con la pizza in Arkansas.
“Cossa ci metto indrento, doc?”, mi chiede tutte le volte. “Tutto”, rispondo tutte le volte.
Peccato che non abbia la birra. Prendo una Coca e consumo al tavolino fuori, cercando di non lordarmi la giacca. Quando non ci sono clienti invece resto dentro e facciamo due chiacchiere.
Alcuni mesi fa gli ho promesso che gli porterò quella pesantissima rosa del deserto che ho portato nello zaino da Nefta, dove inizia il Sahara, e che è ancora a casa di mia madre. Me ne dimentico sempre.
Samir è qui da sei anni, è un bel ragazzone allegro e benvoluto da molti. Anche da quelli che continuano a chiamarlo el marochin.
E poi arrivano questi messaggi che mi commuovono, e da oggi saprò rispondere un pochino meglio alla domanda “Cos’è Pane e Noci?”.
“Leggo a pezzetti a mio padre il tuo libro, rivive la sua giovinezza in campagna e alla Montedison ha lavorato per oltre 30 anni. Grazie Lucio, per lui è una ventata di energia”.
Mi è capitato fra le mani un brano di Leonard Cohen che ho rubato durante le prove estive di un Germogli, magistralmente eseguito dai maestri Annamaria Moro ❤️ e Giorgio Gobbo ❤️
Gennajo: ho deciso di fare il minor numero possibile di viaggi di lavoro. Finora molto bene.
Febbrajo: mi hanno regalato 15 chili di sbrise (Pleurotus ostreatus).Buone, in congelatore ne ho ancora un residuo. Servirebbe un reintegro, amico mio.
Marzo: anche quest’anno sono arrivato al compleanno. Bene ma non benissimo: 59 iniziano a pesare.
Aprile: dolce dormire.
Maggio: ho presentato Pane e Noci a Palazzo Madama. Mio padre si sarebbe commosso.
Giugno: Papa Francesco mi ha scritto, grossomodo, “Gran bel libro, bocia. Gran bel libro. Ti benedico. Per posta ma ti benedico”. Mia madre sì, si è commossa. E si è anche tenuta l’allegato santino autografato.
Luglio: anniversario di matrimonio. Parigi è ostriche, con l’accento.
Agosto: mare, credo. Così su due piedi ho dei ricordi vaghi.
Settembre: Londra e l’Enric’ottavo. Questo sì, lo ricordo bene. O era nono? Maledetti pub.
Ottobre: mah…
Novembre: mi hanno detto che no, non ho un tumore.
Dicembre: per ora non un granché, ma mancano 15 giorni e, caro Mick Jagger, come la mettiamo? Dai, lo so che possiamo farcela, basta crederci 🎶
.
Ecco, un 22 non male, direi. Grazie anche a quel pochino di culo che non guasta mai.
Esco a buttare i rifiuti nel bidone che svuoteranno fra poco.
Sono ancora lucidi, colorati, c’è ancora l’etichetta con scritto cosa custodivano.
Li ho comperati ieri sera, questi rifiuti.
Comperare rifiuti, che stupidaggine …
LM
(questo l’ho scritto per la mamma di Giovanni, perché da troppo tempo non scrivo cose in questo blog e perché anche Giovanni, effettivamente, è molto triste)
Attraversare una città a piedi permette di dare un valore diverso allo spazio e al tempo e di osservare cose che in altri modi sarebbero invisibili.
Passeggiando all’ombra di un viale ne apprezziamo il clima più mite, ma soprattutto possiamo soffermarci sui singoli alberi distinguendone la diversa specie, le dimensioni, la simmetria della chioma o, per contro, la forma innaturale impostagli da una pianificazione che troppo spesso considera il verde urbano come un accessorio alla stregua di una panchina o un di lampione o, peggio, un disturbo alla viabilità.
.
Il mio viaggio inizia dal capolinea di un autobus che mi porterà di fronte al municipio dal quale farò quasi lo stesso percorso a ritroso e a piedi, col tempo che si concederebbe un pedone curioso del suo verde.
Dopo 34 minuti scendo, prendo un caffè al tavolino di un bar, mi guardo attorno e mi dirigo verso un platano isolato e imponente.
Platani di dimensioni ragguardevoli ce ne sono molti in quasi tutte le città, ampiamente diffusi nei parchi urbani e lungo le principali vie di comunicazione soprattutto dall’inizio dell’800. Il platano è una specie vigorosa, robusta e così frugale da adattarsi con facilità a suoli e a climi molto diversi, ma soprattutto capace di sopportare più di molte altre le ingiurie prodotte dalla recisione di rami e radici, spesso ingiustificabili.
Mi avvicino. La chioma è ricca di foglie sane, un po’ sofferenti per via della siccità dell’estate scorsa, ma per un platano questo non è quasi mai un problema. Mi preoccupa un po’ quella carie là in alto, a 9-10 metri di altezza. Se non avessi alzato lo sguardo non me ne sarei accorto neanch’io, che di lavoro faccio il medico degli alberi. Quel danno è senz’altro il risultato di una potatura mal eseguita, nello stile di vent’anni fa. La ferita, non ancora cicatrizzata, è stata infettata da un fungo che si nutre del legno interno, indebolendo però tutto quel che c’è a monte. Circa 300 chili che rischiano di cadere improvvisamente a terra, o su un’auto, o su un pedone. Varrebbe la pena verificarne la stabilità, informerò il Comune. Fortunatamente la base è ampia e apparentemente sana, protetta da un’aiuola che serve a evitare che le auto danneggino le radici. L’aiuola di protezione è un segnale di rispetto, sia per l’albero sia per i cittadini che, anche se molti non lo sanno, di questo bene comune sono proprietari: l’amministrazione attuale ne è semplicemente custode, fino alle prossime elezioni.
Proseguo verso il parco sulla destra, attraversato frettolosamente da centinaia di persone al giorno. Spesso i parchi urbani rispecchiano la visione, anche politica, di una comunità. Questo è pulito, ordinato, piacevole, trasparente allo sguardo. Dà una sensazione di sicurezza anche a chi lo attraversa da solo e all’imbrunire. È per questo motivo, che nei parchi urbani spesso non si concede alcuno spazio a nuclei vegetali naturaliformi. È un peccato, perché quella stessa ricchezza e densità di specie che evoca timori ancestrali favorirebbero facilmente una maggiore biodiversità complessiva, anche animale. Per il picchio, la cincia, il pipistrello e molti altri animali questo non è affatto un bel luogo dove vivere, nonostante le molte cassette-nido che vedo, mai abitate.
Mi siedo su una panchina, prendo appunti. Sopra di me c’è un tiglio, con le inconfondibili foglie a forma di cuore. Lungo il viale che percorre il parco da un’estremità all’altra ce n’è un doppio filare, omogeneo. Ricordo che a Berlino ce n’era un filare storico che chiamavano Unter den Linden (sotto i tigli), tagliato dai nazisti per far spazio ai carri armati e poi ricostruito in breve tempo dopo la seconda guerra mondiale. Dalle dimensioni, anche quelli di fronte a me hanno sui settant’anni. Sono alberi ancora giovani che, se adeguatamente accuditi, potranno facilmente superare i 5 secoli. Troppo spesso non succede, e così ci meravigliamo di quelli che arrivano a superare il secolo.
Mi sposto verso il percorso dell’autobus e mi fermo a sbirciare fra le sbarre del cancello di un giardino privato. Se non ricordo male, qui abitava un tenore. Sembra molto curato, lo sarà senz’altro. Non ho mai visto un giardino signorile trascurato. Non credo che sia solo una questione di denaro, conosco persone più che benestanti che al giardino preferiscono una piscina o un grande garage con una collezione di auto. È il piacere di stare fra le piante, senza fretta, magari sedendosi all’ombra a leggere qualche pagina; è lo stesso motivo per cui chi non ha un suo giardino decide di fare una passeggiata in un parco pubblico o in un orto botanico. Un piacere da pedoni.
Circonvallazione interna: un piccolo prato ordinato, ben rasato. Uno spicchio verde gradevole, ma non ci sono fiori. Spesso dimentichiamo che per avere un prato fiorito sarebbe sufficiente non far nulla: semplicemente lasciare alle piante il tempo di fiorire. Decapitandole ogni mese, questo non può davvero succedere. È un peccato, anche per le api e i molti altri insetti che dipendono dai fiori e, suppongo, anche per il bilancio comunale.
La strada è affiancata da un filare di platani. Ricordo chiaramente quando piantarono questi. Era il 1988, 34 anni fa. Sono sicuro che una persona non esperta direbbe che hanno quasi cent’anni. Semplicemente, questi alberi sono stati piantati nel luogo adeguato e sufficientemente lontano dalla strada. È per questo che, finora, non sono mai stati potati. A loro è andata bene, certamente sono stati messi a dimora da un buon amministratore delle cose pubbliche. Non posso dire la stessa cosa dei molti altri che vedo quotidianamente, capitozzati con una frequenza dettata dalla disponibilità di denaro e da persone incuranti dei molti effetti negativi della potatura sulla salute dell’albero.
Proseguo il mio cammino verso la periferia. A mano a mano che la città si è espansa, ai quartieri popolari se ne sono affiancati altri, residenziali, destinati alle persone che dal centro hanno preferito spostarsi in case più spaziose e silenziose. Chiamano questo fenomeno gentrificazione, secondo il quale quella che una volta veniva chiamata media borghesia sceglie di spostarsi verso la periferia, modificandola a propria immagine e somiglianza. Il verde urbano che si rifà il trucco. Non conosco le ripercussioni sociali di questo fenomeno, ma in questi casi spesso osservo scelte discutibili e che rasentano il desiderio di ostentazione, come quei costosi ulivi sopraelevati, collocati in centro al giardino e con la chioma ridotta alla forma di scopettone e venduti con un nome commerciale ridicolo.
Ed eccoci nella periferia vera. Una quarantina d’anni fa questa era una strada alberata da entrambi i lati, con platani che formavano una galleria ombrosa che univa, anche simbolicamente, campagna e città. Allargarono la strada e piantarono questi alberelli dal nome strano, di basso costo e di pessima qualità vivaistica nello spazio disponibile: fra il bordo stradale e il marciapiedi, immersi nell’asfalto, sofferenti da subito, suscettibili a malattie che su alberi vigorosi difficilmente comparirebbero. Chi abita qui parte prima della luce e torna col buio, stanco, distratto, con pensieri senz’altro diversi dal fare considerazioni sugli alberi, troppo spesso infilati nel marciapiede come fosse cartelli stradali, puliti dai loro rami perché troppo vicini al bordo della strada, danneggiati irreparabilmente da parcheggiatori frettolosi di entrare al supermercato prima dell’orario di chiusura. Nella periferia dove abito io, da quindici giorni l’Amministrazione comunale ha recintato il pino di un piccolissimo parco giochi per evitare eventuali danni nel caso in cui un ramo spezzato dal forte vento dovesse cadere. Sarebbe bastata un’autoscala e una motosega, ci sarebbe voluto quasi lo stesso tempo della posa delle transenne. Nel frattempo, i bambini aspettano fiduciosi. Questi e molti altri esempi che potrei fare raccontano la generalizzata trascuratezza delle periferie: pensiline non sempre pulite, panchine mai riparate, cestini vuotati raramente e, chiaramente, un verde pubblico (che per definizione appartiene a tutti) vissuto come un costo, un disturbo, un fastidio. Spesso anche dagli stessi abitanti.
Arrivo al capolinea dell’autobus dove ho parcheggiato l’auto un paio d’ore fa. In questo tempo ho passeggiato e osservato senza fretta, come solo un pedone può fare.
Piero non è mai stato un bambino nel senso che intendiamo noi. Non c’era tempo. Prima pastore di pecore su per queste colline, poi a costruire a colpi di piccone la strada che percorro per tornare a casa mia, poi soldato in Grecia (che lui non lo sapeva mica se era davvero la Grecia quella là, che il mare non c’era), poi aiuto fornaio, poi lavoretti vari e alla fine becchino. Sempre al servizio di qualcun altro. Col tempo che restava coltivava il castagneto sopra casa e il brolo di cachi, fichi, meli e merlot. Emma invece faceva la moglie, la madre, patate cornette, sorgo e galline. Pregava e sperava. Sperava tanto. Sperava una stufa economica di quelle col forno e la cassetta per l’acqua calda, un futuro in pianura per i figli e una poltrona per la sera, come quelle sulla Famiglia Cristiana. E invece, con sei figli sgranati con una precisione cronometrica, l’economia familiare galleggiava con difficoltà, soprattutto d’inverno. Per fortuna c’era la Bianca, una capra bianca che garantiva latte a sufficienza per tutti. Bastava allungarlo con l’acqua e metterci dentro tanta polenta. Gialla. Della Bianca se ne occupava la Orsolina, sei anni, che Piero chiamava la piccola e gli altri la Nina. Nel dicembre del Cinquantasei Piero e suo fratello Sergio si fecero prestare il cavallo dai Bruson, lo attaccarono al carro, fecero salire la Nina e andarono alla fiera di Santa Lucia. Tornarono con sei conigli, dieci chili di riso e tre pignatte d’alluminio. La Nina tornò col ricordo del primo zucchero filato, del primo circo, del pagliaccio che continuava a inciampare sulle sue stesse scarpe e dell’orso che camminava goffamente su due zampe. Ne fece anche un disegno per suor Elisabetta, che ci scarabocchiò sopra un grande 9+ blu, rovinandolo. Lei pianse, ma quella sera Piero se la prese sulle ginocchia e le disse che più di nove significava dieci, e che doveva esserne orgogliosa.
Esplosero tutti in una risata, Emma si allontanò per fare il caffè con la Miscela Leone e Piero prese la Nina sopra ai suoi piedi accennando alcuni passi di quel ballo che aveva imparato in Grecia.