
Samir è arrivato qui da un posto che non è neppure un paese, ma un insediamento di poche case vicino a un uadi, un letto di torrente stagionale in mezzo ad una zona desertica.
Me li ricordo quei posti, ci sono stato per un mese intero quando avevo vent’anni con Enrico e Sergio, perché suo padre lavorava al metanodotto Algeria-Tunisia-Italia e noi ne abbiamo abbondantemente approfittato.
Samir è partito quindici anni fa dalla Tunisia, da solo, senza una destinazione precisa, senza soldi e con un italiano approssimativo imparato dalla Rai.
Si è arrangiato per qualche anno a tirar su pomodori e a tirar giù arance e coi pochi soldi messi da parte è arrivato nel Veneto, a lavorare da un grosso vivaista che con una mano lo pagava e con l’altra si faceva dare indietro i soldi dell’affitto di un appartamento dove dormiva con altri cinque nordafricani.
Coi pochi soldi messi da parte Samir è arrivato in questo paesino di quattromila abitanti e si è messo a fare kebab.
Li fa con un molto abbondante strato di fettine d’agnello che taglia con una specie di rasoio elettrico e poi ci cosparge sopra tante salsine diverse. L’harissa è uno spettacolo.
Lui li fa a modo suo, sia chiaro. Mica li sapeva fare i kebab. Ma neanche noi sappiamo cosa sono, giusto?
«Cossa ci metto, doc?», mi chiede sempre.
«Tutto», rispondo sempre.
I kebab di Samir sono belli saporiti, forse un po’ pesantini.
Peccato che non abbia il frigo e che, soprattutto, non abbia la birra. Di solito prendo una Coca e consumo al tavolino fuori, cercando di non sbrodolarmi la camicia.
Ecco, vedete, Samir si è adeguato, si è spostato, ha cercato miglior fortuna e un po’ ne ha trovata.
Samir è qui da sei anni, è un bel ragazzo simpatico e benvoluto da molti.
Anche da quelli che continuano a chiamarlo el marochin.
Samir, si chiama Samir.
Ed è tunisino.
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LM
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