
(ripropongo un post di un anno fa, mi sembra il caso).
Ho la fortuna di frequentare la montagna dai miei primi tre mesi di vita: Asiago in versione “quattro stagioni”.
Il mare era a mezz’ora e la montagna a un’ora e mezza, ma i miei hanno sempre, decisamente preferito la montagna. Dev’essere per via del richiamo delle radici montane testimoniato dai loro cognomi, o che i nostri cromosomi si orientano più facilmente verso il nord magnetico.
Fatto sta che iniziai a sciare non appena i miei piedi diventarono lunghi abbastanza per calzare quegli scarponcini di cuoio alti fino alla caviglia, coi lacci rossi e la suola con la punta piatta e il tacco scanalato.
Sci di legno senza alcuna marca evidente e con gli attacchi che bloccavano senza via di scampo gli scarponi, con una molla tutto attorno e una leva sul davanti.
I primi rudimenti li imparai dal maestro Claudio (il figlio di Lino, il custode del cimitero inglese del quale ho già avuto modo di scrivere).
Tutto questo succedeva di mercoledì, perché di domenica “c’è troppa gente” sentenziava papà (una quarantina di persone in tutto; oggi fa sorridere, lo so).
Mio padre veniva a prendere Fabio e me con la ottoecinquanta blu a scuola verso mezzogiorno per spendere assieme un pomeriggio sulla pistina di Cesuna, ricavata tirando uno skilift (“il gancio”) lungo il prato sul quale fino a due mesi prima pascolavano le stesse vacche che sarebbero tornate in primavera (si dice pascolo e non prato, ma volevo evitare il gioco di parole. E si dice vacche, che non è una parolaccia).
Il ’74 consacrò la “valanga azzurra” e Gustav Thoeni, uno col cuore di Zeno Colò ma molta più tecnica, con dei cambi di ritmo tali da riuscire a scalare due marce in curva, buttare fuori dal baricentro ginocchio e spalla e ridurre il raggio di curvatura in una frazione di secondo, proprio un attimo dopo il paletto di legno.
Nel frattempo io ci davo di spazzaneve, di “peso a valle” e di “bruco” (per imparare a cadere senza rompersi le caviglie). Poi finalmente imparai a comandare io: peso a monte, molleggio, bastoncino, cambio, rimolleggio e spinta su caviglie e tibie.
Nei tratti diritti cercavo di prendere la posizione “a uovo” per imitare Pierino Gros.
Da fermo, invece, mi piaceva fare un saltino sui tacchi prima di lanciarmi giù meglio che potevo, emulando Thoeni al cancelletto di quel favoloso, indimenticabile parallelo in Val Gardena contro Stenmark. Di loro avevo due grandi poster comperati in una libreria del centro a Padova. Ho cercato anche quello di Klammer per molto tempo, senza successo.
Poi ci fu la tragedia di Leo David e la valanga azzurra si sciolse come neve al sole, ma nel frattempo alcune aziende artigianali si erano già industrializzate e divennero famose: Spalding, Colmar, Caber e La Tecnica, che inventò e lanciò un doposci che divenne status symbol anche per chi abitava in Piazza dei Signori. Il Moon Boot. Uno stivale peloso buono per lo spritz, ma all’epoca lo spritz era troppo plebeo.
La moda dirompente dello sci da discesa decollò parecchi anni dopo con “Tomba la bomba”, il caschetto, il burro di cacao colorato, gli occhiali polarizzati, le giacche e le braghe larghe, gli scarponi fluo, i comprensori da millemila chilometri intervallati da finte baite col brulè e il solarium, gli alberghi e le seconde case con accesso diretto alla pista per quelli che “io vivo nella natura”.
Qualche discoteca in centro e, soprattutto, un bendiddìo di turisti ricchi e schiamazzoni che non sapevano neppure dov’erano, che fingevano e fingono tuttora di ignorare che la neve finta (che già a chiamarla neve mi mette tristezza) viene fatta squarciando la montagna per metterci dentro vasche e tubi e che da quella striscia bianca si muovevano solo per rientrare in tempo per il brulè serale rigorosamente con fettina d’arancia, nello stile del punch.
L’industria dello sci (perché di industria si tratta) intanto procedeva al ritmo della cavalleria rusticana: colossi finanziari ignoti piantavano da un anno all’altro piste nuove, alberghi, piscine coperte e tutto il resto. Noi, stupidamente, ridevamo.
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Ho smesso di andarci, in quei posti là. Da almeno trent’anni.
Con Fabio, Giorgio e altri coetanei siamo passati allo sci da fondo nella sua versione vecchio stile: squamatòni Slegar e via, fino a perderci parecchie volte come quella notte, uno dietro all’altro, con la vetrata illuminata di un albergo lontano come unica stella polare.
E poi un bellissimo giorno abbiamo deciso che “basta così” e, vestiti come al solito con quel che c’era in casa, abbiamo preso una ovovia e ci siamo lanciati fra i turisti fighetti e lenti.
Giù, col solito zaino di cotone sulle spalle e gli sci da fondo ai quali avevamo dato una definitiva passata di cartavetrata per spianare la maggior parte delle squame, decretare la morte anche di quelli e, per quel che ci riguardava, di tutto quello che il business della montagna d’inverno significava, voluto da businessmen pronti a investire indifferentemente in un comprensorio sciistico, in un resort galleggiante in Thailandia, in uno zoosafari coi leoni spelacchiati o in un parco acquatico coi delfini in gabbia. Quelli che dicono ventiventi, ventiventuno e ventiventidue, per intenderci.
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Continuo a frequentare la montagna, sia chiaro, e la amo così tanto da abitarci.
È che, semplicemente, la montagna non può essere oggetto di profitto brutale, umiliata da raffiche di neve finta sparata dentro a corridoi racchiusi da boschi finti.
Se scaricassimo qualche milione di tonnellate di sale nel Garda solo per poterlo chiamare mare, non sarebbe stupido?
E allora perché non riteniamo stupida la scelta di coprire di polvere di ghiaccio strisce di montagna, là dove la neve non cade oramai da trent’anni, con tutte le implicazioni ecologiche di breve e (quel che mi preoccupa di più) lungo periodo?
Spero che il turismo invernale non mancherà, in queste nostre montagne con gli impianti di risalita vincolati al Green Pass. Questa potrebbe essere finalmente una buona occasione per visitare davvero la montagna, quella vera.
Mettiamo da parte, almeno per quest’anno, le riviste patinate e le guide VIP.
Cominciamo a girarle, queste nostre valli.
Lentamente.
A fermarci nei paesini che il sito internet non ce l’hanno, a ricreare un indotto economico nelle periferie dei comprensori più famosi.
Ci sono un sacco di luoghi meravigliosi da visitare e persone belle da incontrare, ovunque.
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Lucio Montecchio
(ho ritoccato il logo, vi piace?)
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