
Il primo d’ottobre del 1969 fu il mio primo giorno di scuola.
Plesso scolastico “Maria Montessori”.
Il primo giorno fu abbastanza drammatico, ma lo fu ancor di più per Sergio, abituato a saltare i fossi per lungo e dar la caccia alle rane con la fionda.
Io avevo una cartella più grande di me, di plasticone blu cartonato e con due tiracche bianche che servivano a infilarci dentro le spalle per poi correre sgangheratamente.
Di fronte alle scuole c’era, e c’è ancora, un campo da pallacanestro con la parte perimetrale a uso pattinodromo, a sinistra la palazzina rosa delle medie e a destra quella delle differenziali: un primo piano al quale si accedeva da una scala esterna come a dover espiare chissà quale peccato prima di poter accedere all’istruzione.
Alle differenziali ci mettevano i bambini differenti, alla faccia della Montessori.
Quelli che venivano da famiglie così povere che indubbiamente avrebbero rallentato il programma della maestra Franca, quelli un po’ più burrascosi di Sergio che certamente avrebbero rallentato il programma della maestra Franca e quelli che dopo pochi giorni non riuscivano a ricopiare per bene la effe di farfalla che la maestra Franca ghirigoreggiava sulla lavagna.
La ricreazione sul piazzale inghiaiato la facevamo in momenti diversi, per una questione di distanziamento sociale.
«Fantoìn, i o ga messo ae diferensiài», pronunciata soprattutto scuotendo la testa e allargando un po’ le braccia, significava qualcosa come «povera stella, non è colpa sua, ma noi cosa ci possiamo fare?».
Di disagio familiare e di autismo non si parlava, all’epoca. Lo sapevano tutti, ma semplicemente non se ne parlava.
Alle differenziali ci misero anche il mio amico Claudio, che abitava a quaranta metri da casa mia.
Un bambino enorme, gentile e di troppo poche parole.
Claudio è un artista: coltiva bonsai. Specie nostrane, rustiche, in vasi che ricava sbrecciandone di più grandi, mica quelle cose lì esotiche legate col fil di ferro dentro a vasi smaltati di blu.
Claudio è quell’omone che, dopo una quarantina d’anni che mancavo dal paese, al funerale di mio padre mi è venuto incontro, mi ha detto «condoglianze, Lucio» posandomi una mano sulla spalla attraverso il finestrino aperto e mi ha aiutato a parcheggiare la macchina sul piazzale della chiesa.
In fondo sì, è vero, Claudio è sempre stato differente.
LM
(tratto da Pane e Noci, Ronzani Editore)
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