
Attraversare una città a piedi permette di dare un valore diverso allo spazio e al tempo e di osservare cose che in altri modi sarebbero invisibili.
Passeggiando all’ombra di un viale ne apprezziamo il clima più mite, ma soprattutto possiamo soffermarci sui singoli alberi distinguendone la diversa specie, le dimensioni, la simmetria della chioma o, per contro, la forma innaturale impostagli da una pianificazione che troppo spesso considera il verde urbano come un accessorio alla stregua di una panchina o un di lampione o, peggio, un disturbo alla viabilità.
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Il mio viaggio inizia dal capolinea di un autobus che mi porterà di fronte al municipio dal quale farò quasi lo stesso percorso a ritroso e a piedi, col tempo che si concederebbe un pedone curioso del suo verde.
Dopo 34 minuti scendo, prendo un caffè al tavolino di un bar, mi guardo attorno e mi dirigo verso un platano isolato e imponente.
Platani di dimensioni ragguardevoli ce ne sono molti in quasi tutte le città, ampiamente diffusi nei parchi urbani e lungo le principali vie di comunicazione soprattutto dall’inizio dell’800. Il platano è una specie vigorosa, robusta e così frugale da adattarsi con facilità a suoli e a climi molto diversi, ma soprattutto capace di sopportare più di molte altre le ingiurie prodotte dalla recisione di rami e radici, spesso ingiustificabili.
Mi avvicino. La chioma è ricca di foglie sane, un po’ sofferenti per via della siccità dell’estate scorsa, ma per un platano questo non è quasi mai un problema. Mi preoccupa un po’ quella carie là in alto, a 9-10 metri di altezza. Se non avessi alzato lo sguardo non me ne sarei accorto neanch’io, che di lavoro faccio il medico degli alberi. Quel danno è senz’altro il risultato di una potatura mal eseguita, nello stile di vent’anni fa. La ferita, non ancora cicatrizzata, è stata infettata da un fungo che si nutre del legno interno, indebolendo però tutto quel che c’è a monte. Circa 300 chili che rischiano di cadere improvvisamente a terra, o su un’auto, o su un pedone. Varrebbe la pena verificarne la stabilità, informerò il Comune. Fortunatamente la base è ampia e apparentemente sana, protetta da un’aiuola che serve a evitare che le auto danneggino le radici. L’aiuola di protezione è un segnale di rispetto, sia per l’albero sia per i cittadini che, anche se molti non lo sanno, di questo bene comune sono proprietari: l’amministrazione attuale ne è semplicemente custode, fino alle prossime elezioni.
Proseguo verso il parco sulla destra, attraversato frettolosamente da centinaia di persone al giorno. Spesso i parchi urbani rispecchiano la visione, anche politica, di una comunità. Questo è pulito, ordinato, piacevole, trasparente allo sguardo. Dà una sensazione di sicurezza anche a chi lo attraversa da solo e all’imbrunire. È per questo motivo, che nei parchi urbani spesso non si concede alcuno spazio a nuclei vegetali naturaliformi. È un peccato, perché quella stessa ricchezza e densità di specie che evoca timori ancestrali favorirebbero facilmente una maggiore biodiversità complessiva, anche animale. Per il picchio, la cincia, il pipistrello e molti altri animali questo non è affatto un bel luogo dove vivere, nonostante le molte cassette-nido che vedo, mai abitate.
Mi siedo su una panchina, prendo appunti. Sopra di me c’è un tiglio, con le inconfondibili foglie a forma di cuore. Lungo il viale che percorre il parco da un’estremità all’altra ce n’è un doppio filare, omogeneo. Ricordo che a Berlino ce n’era un filare storico che chiamavano Unter den Linden (sotto i tigli), tagliato dai nazisti per far spazio ai carri armati e poi ricostruito in breve tempo dopo la seconda guerra mondiale. Dalle dimensioni, anche quelli di fronte a me hanno sui settant’anni. Sono alberi ancora giovani che, se adeguatamente accuditi, potranno facilmente superare i 5 secoli. Troppo spesso non succede, e così ci meravigliamo di quelli che arrivano a superare il secolo.
Mi sposto verso il percorso dell’autobus e mi fermo a sbirciare fra le sbarre del cancello di un giardino privato. Se non ricordo male, qui abitava un tenore. Sembra molto curato, lo sarà senz’altro. Non ho mai visto un giardino signorile trascurato. Non credo che sia solo una questione di denaro, conosco persone più che benestanti che al giardino preferiscono una piscina o un grande garage con una collezione di auto. È il piacere di stare fra le piante, senza fretta, magari sedendosi all’ombra a leggere qualche pagina; è lo stesso motivo per cui chi non ha un suo giardino decide di fare una passeggiata in un parco pubblico o in un orto botanico. Un piacere da pedoni.
Circonvallazione interna: un piccolo prato ordinato, ben rasato. Uno spicchio verde gradevole, ma non ci sono fiori. Spesso dimentichiamo che per avere un prato fiorito sarebbe sufficiente non far nulla: semplicemente lasciare alle piante il tempo di fiorire. Decapitandole ogni mese, questo non può davvero succedere. È un peccato, anche per le api e i molti altri insetti che dipendono dai fiori e, suppongo, anche per il bilancio comunale.
La strada è affiancata da un filare di platani. Ricordo chiaramente quando piantarono questi. Era il 1988, 34 anni fa. Sono sicuro che una persona non esperta direbbe che hanno quasi cent’anni. Semplicemente, questi alberi sono stati piantati nel luogo adeguato e sufficientemente lontano dalla strada. È per questo che, finora, non sono mai stati potati. A loro è andata bene, certamente sono stati messi a dimora da un buon amministratore delle cose pubbliche. Non posso dire la stessa cosa dei molti altri che vedo quotidianamente, capitozzati con una frequenza dettata dalla disponibilità di denaro e da persone incuranti dei molti effetti negativi della potatura sulla salute dell’albero.
Proseguo il mio cammino verso la periferia. A mano a mano che la città si è espansa, ai quartieri popolari se ne sono affiancati altri, residenziali, destinati alle persone che dal centro hanno preferito spostarsi in case più spaziose e silenziose. Chiamano questo fenomeno gentrificazione, secondo il quale quella che una volta veniva chiamata media borghesia sceglie di spostarsi verso la periferia, modificandola a propria immagine e somiglianza. Il verde urbano che si rifà il trucco. Non conosco le ripercussioni sociali di questo fenomeno, ma in questi casi spesso osservo scelte discutibili e che rasentano il desiderio di ostentazione, come quei costosi ulivi sopraelevati, collocati in centro al giardino e con la chioma ridotta alla forma di scopettone e venduti con un nome commerciale ridicolo.
Ed eccoci nella periferia vera. Una quarantina d’anni fa questa era una strada alberata da entrambi i lati, con platani che formavano una galleria ombrosa che univa, anche simbolicamente, campagna e città. Allargarono la strada e piantarono questi alberelli dal nome strano, di basso costo e di pessima qualità vivaistica nello spazio disponibile: fra il bordo stradale e il marciapiedi, immersi nell’asfalto, sofferenti da subito, suscettibili a malattie che su alberi vigorosi difficilmente comparirebbero. Chi abita qui parte prima della luce e torna col buio, stanco, distratto, con pensieri senz’altro diversi dal fare considerazioni sugli alberi, troppo spesso infilati nel marciapiede come fosse cartelli stradali, puliti dai loro rami perché troppo vicini al bordo della strada, danneggiati irreparabilmente da parcheggiatori frettolosi di entrare al supermercato prima dell’orario di chiusura. Nella periferia dove abito io, da quindici giorni l’Amministrazione comunale ha recintato il pino di un piccolissimo parco giochi per evitare eventuali danni nel caso in cui un ramo spezzato dal forte vento dovesse cadere. Sarebbe bastata un’autoscala e una motosega, ci sarebbe voluto quasi lo stesso tempo della posa delle transenne. Nel frattempo, i bambini aspettano fiduciosi. Questi e molti altri esempi che potrei fare raccontano la generalizzata trascuratezza delle periferie: pensiline non sempre pulite, panchine mai riparate, cestini vuotati raramente e, chiaramente, un verde pubblico (che per definizione appartiene a tutti) vissuto come un costo, un disturbo, un fastidio. Spesso anche dagli stessi abitanti.
Arrivo al capolinea dell’autobus dove ho parcheggiato l’auto un paio d’ore fa. In questo tempo ho passeggiato e osservato senza fretta, come solo un pedone può fare.
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