
Samir è arrivato qui da un posto che non è neanche un paese, più che altro è una manciata di case lungo un uadi, un torrente stagionale in mezzo al deserto.
Me li ricordo bene quei posti, ci sono stato per un mese intero quando avevo vent’anni con Enrico e Sergio, che suo padre lavorava al metanodotto diretto in Italia e noi ne abbiamo spudoratamente approfittato.
Samir è partito quindici anni fa dalla Tunisia, da solo, senza una destinazione precisa, senza soldi e con un italiano approssimativo imparato dalla Rai: “Pappamiao, il filetto gustoso per il tuo amico peloso”, “Granny, l’anticellulite più amata dalle ottantenni”, “Sonnecchia, la poltrona wifi per tutto il relax che vorrai (con una friggitrice in omaggio, che non si sa mai)”.
Da quel barcone carico di sogni Samir immaginava una casa con le tapparelle elettriche, il water che si svuota pigiando un pulsante, un salotto in alcantara azzurro, il frigorifero pieno di salmone selvaggio, un gatto peloso e una ragazza come quella dell’acqua tonica.
Si è arrangiato per qualche anno a tirar su pomodori sotto a un sole che picchiava come un martello, l’identico sole che baciava i bagnanti belli poco lontano.
Coi pochi soldi messi da parte è arrivato qui, a sgobbare per un vivaista bio, ecosostenibile e carbon-neutral che con una mano lo pagava e con l’altra si faceva dare indietro i soldi per l’uso di un appartamento dove dormiva con altri sette nordafricani. Però il frigorifero c’era. Piccolo, ma c’era.
Poi si è spostato in questo paese di campagna e si è messo a fare kebab di fianco a un barbiere che si è tatuato l’anno di nascita su un polpaccio: MCMXCII. 1000 + (1000 – 100) + (100-10) + 1 + 1. Totale 1992. Caro barbiere con le meches, a me i numeri romani li ha insegnati il signor Barbetta nel suo negozio di stoffe quando avevo 7 anni.
I kebab di Samir sono semplici, saporiti. Un abbondante strato di fettine d’agnello oppure di tacchino, che taglia con una specie di rasoio elettrico da un rullo verticale di carne pressata, verdure varie e tante salse diverse da cospargerci sopra. L’harissa è uno spettacolo.
Li fa a modo suo, perché mica li sapeva fare i kebab, lui. Ma neanche noi sappiamo come dovrebbero essere, giusto? È come con la pizza in Arkansas.
“Cossa ci metto indrento, doc?”, mi chiede tutte le volte.
“Tutto”, rispondo tutte le volte.
Peccato che non abbia la birra. Prendo una Coca e consumo al tavolino fuori, cercando di non lordarmi la giacca.
Quando non ci sono clienti invece resto dentro e facciamo due chiacchiere.
Alcuni mesi fa gli ho promesso che gli porterò quella pesantissima rosa del deserto che ho portato nello zaino da Nefta, dove inizia il Sahara, e che è ancora a casa di mia madre. Me ne dimentico sempre.
Samir è qui da sei anni, è un bel ragazzone allegro e benvoluto da molti.
Anche da quelli che continuano a chiamarlo el marochin.
Samir, si chiama Samir.
Ed è tunisino.
LM
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