Il treno è in ritardo, la toilette è occupata e a me scappa la pipì. “… general manager di una multinazionale con sede a Bergamo. Sa, coordino un gruppo di 82 persone e sono sempre in giro, adesso sto andando ad un meeting per un innovation project che dovrebbe permetterci di assorbire un’azienda locale, nel pomeriggio ho una call con lo studio legale che seguirà questa cosa e domani volo a Bruxelles in giornata”.
Dieci minuti fa gli avevo chiesto cosa fa nella vita. Così, tanto per parlare.
Samir è arrivato qui da un posto che non è neanche un paese, più che altro è una manciata di case lungo un uadi, un torrente stagionale in mezzo al deserto.
Me li ricordo bene quei posti, ci sono stato per un mese intero quando avevo vent’anni con Enrico e Sergio, che suo padre lavorava al metanodotto diretto in Italia e noi ne abbiamo spudoratamente approfittato.
Samir è partito quindici anni fa dalla Tunisia, da solo, senza una destinazione precisa, senza soldi e con un italiano approssimativo imparato dalla Rai: “Pappamiao, il filetto gustoso per il tuo amico peloso”, “Granny, l’anticellulite più amata dalle ottantenni”, “Sonnecchia, la poltrona wifi per tutto il relax che vorrai (con una friggitrice in omaggio, che non si sa mai)”.
Da quel barcone carico di sogni Samir immaginava una casa con le tapparelle elettriche, il water che si svuota pigiando un pulsante, un salotto in alcantara azzurro, il frigorifero pieno di salmone selvaggio, un gatto peloso e una ragazza come quella dell’acqua tonica.
Si è arrangiato per qualche anno a tirar su pomodori sotto a un sole che picchiava come un martello, l’identico sole che baciava i bagnanti belli poco lontano.
Coi pochi soldi messi da parte è arrivato qui, a sgobbare per un vivaista bio, ecosostenibile e carbon-neutral che con una mano lo pagava e con l’altra si faceva dare indietro i soldi per l’uso di un appartamento dove dormiva con altri sette nordafricani. Però il frigorifero c’era. Piccolo, ma c’era.
Poi si è spostato in questo paese di campagna e si è messo a fare kebab di fianco a un barbiere che si è tatuato l’anno di nascita su un polpaccio: MCMXCII. 1000 + (1000 – 100) + (100-10) + 1 + 1. Totale 1992. Caro barbiere con le meches, a me i numeri romani li ha insegnati il signor Barbetta nel suo negozio di stoffe quando avevo 7 anni.
I kebab di Samir sono semplici, saporiti. Un abbondante strato di fettine d’agnello oppure di tacchino, che taglia con una specie di rasoio elettrico da un rullo verticale di carne pressata, verdure varie e tante salse diverse da cospargerci sopra. L’harissa è uno spettacolo.
Li fa a modo suo, perché mica li sapeva fare i kebab, lui. Ma neanche noi sappiamo come dovrebbero essere, giusto? È come con la pizza in Arkansas.
“Cossa ci metto indrento, doc?”, mi chiede tutte le volte. “Tutto”, rispondo tutte le volte.
Peccato che non abbia la birra. Prendo una Coca e consumo al tavolino fuori, cercando di non lordarmi la giacca. Quando non ci sono clienti invece resto dentro e facciamo due chiacchiere.
Alcuni mesi fa gli ho promesso che gli porterò quella pesantissima rosa del deserto che ho portato nello zaino da Nefta, dove inizia il Sahara, e che è ancora a casa di mia madre. Me ne dimentico sempre.
Samir è qui da sei anni, è un bel ragazzone allegro e benvoluto da molti. Anche da quelli che continuano a chiamarlo el marochin.
E poi arrivano questi messaggi che mi commuovono, e da oggi saprò rispondere un pochino meglio alla domanda “Cos’è Pane e Noci?”.
“Leggo a pezzetti a mio padre il tuo libro, rivive la sua giovinezza in campagna e alla Montedison ha lavorato per oltre 30 anni. Grazie Lucio, per lui è una ventata di energia”.
Mi è capitato fra le mani un brano di Leonard Cohen che ho rubato durante le prove estive di un Germogli, magistralmente eseguito dai maestri Annamaria Moro ❤️ e Giorgio Gobbo ❤️
Gennajo: ho deciso di fare il minor numero possibile di viaggi di lavoro. Finora molto bene.
Febbrajo: mi hanno regalato 15 chili di sbrise (Pleurotus ostreatus).Buone, in congelatore ne ho ancora un residuo. Servirebbe un reintegro, amico mio.
Marzo: anche quest’anno sono arrivato al compleanno. Bene ma non benissimo: 59 iniziano a pesare.
Aprile: dolce dormire.
Maggio: ho presentato Pane e Noci a Palazzo Madama. Mio padre si sarebbe commosso.
Giugno: Papa Francesco mi ha scritto, grossomodo, “Gran bel libro, bocia. Gran bel libro. Ti benedico. Per posta ma ti benedico”. Mia madre sì, si è commossa. E si è anche tenuta l’allegato santino autografato.
Luglio: anniversario di matrimonio. Parigi è ostriche, con l’accento.
Agosto: mare, credo. Così su due piedi ho dei ricordi vaghi.
Settembre: Londra e l’Enric’ottavo. Questo sì, lo ricordo bene. O era nono? Maledetti pub.
Ottobre: mah…
Novembre: mi hanno detto che no, non ho un tumore.
Dicembre: per ora non un granché, ma mancano 15 giorni e, caro Mick Jagger, come la mettiamo? Dai, lo so che possiamo farcela, basta crederci 🎶
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Ecco, un 22 non male, direi. Grazie anche a quel pochino di culo che non guasta mai.
Esco a buttare i rifiuti nel bidone che svuoteranno fra poco.
Sono ancora lucidi, colorati, c’è ancora l’etichetta con scritto cosa custodivano.
Li ho comperati ieri sera, questi rifiuti.
Comperare rifiuti, che stupidaggine …
LM
(questo l’ho scritto per la mamma di Giovanni, perché da troppo tempo non scrivo cose in questo blog e perché anche Giovanni, effettivamente, è molto triste)
Attraversare una città a piedi permette di dare un valore diverso allo spazio e al tempo e di osservare cose che in altri modi sarebbero invisibili.
Passeggiando all’ombra di un viale ne apprezziamo il clima più mite, ma soprattutto possiamo soffermarci sui singoli alberi distinguendone la diversa specie, le dimensioni, la simmetria della chioma o, per contro, la forma innaturale impostagli da una pianificazione che troppo spesso considera il verde urbano come un accessorio alla stregua di una panchina o un di lampione o, peggio, un disturbo alla viabilità.
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Il mio viaggio inizia dal capolinea di un autobus che mi porterà di fronte al municipio dal quale farò quasi lo stesso percorso a ritroso e a piedi, col tempo che si concederebbe un pedone curioso del suo verde.
Dopo 34 minuti scendo, prendo un caffè al tavolino di un bar, mi guardo attorno e mi dirigo verso un platano isolato e imponente.
Platani di dimensioni ragguardevoli ce ne sono molti in quasi tutte le città, ampiamente diffusi nei parchi urbani e lungo le principali vie di comunicazione soprattutto dall’inizio dell’800. Il platano è una specie vigorosa, robusta e così frugale da adattarsi con facilità a suoli e a climi molto diversi, ma soprattutto capace di sopportare più di molte altre le ingiurie prodotte dalla recisione di rami e radici, spesso ingiustificabili.
Mi avvicino. La chioma è ricca di foglie sane, un po’ sofferenti per via della siccità dell’estate scorsa, ma per un platano questo non è quasi mai un problema. Mi preoccupa un po’ quella carie là in alto, a 9-10 metri di altezza. Se non avessi alzato lo sguardo non me ne sarei accorto neanch’io, che di lavoro faccio il medico degli alberi. Quel danno è senz’altro il risultato di una potatura mal eseguita, nello stile di vent’anni fa. La ferita, non ancora cicatrizzata, è stata infettata da un fungo che si nutre del legno interno, indebolendo però tutto quel che c’è a monte. Circa 300 chili che rischiano di cadere improvvisamente a terra, o su un’auto, o su un pedone. Varrebbe la pena verificarne la stabilità, informerò il Comune. Fortunatamente la base è ampia e apparentemente sana, protetta da un’aiuola che serve a evitare che le auto danneggino le radici. L’aiuola di protezione è un segnale di rispetto, sia per l’albero sia per i cittadini che, anche se molti non lo sanno, di questo bene comune sono proprietari: l’amministrazione attuale ne è semplicemente custode, fino alle prossime elezioni.
Proseguo verso il parco sulla destra, attraversato frettolosamente da centinaia di persone al giorno. Spesso i parchi urbani rispecchiano la visione, anche politica, di una comunità. Questo è pulito, ordinato, piacevole, trasparente allo sguardo. Dà una sensazione di sicurezza anche a chi lo attraversa da solo e all’imbrunire. È per questo motivo, che nei parchi urbani spesso non si concede alcuno spazio a nuclei vegetali naturaliformi. È un peccato, perché quella stessa ricchezza e densità di specie che evoca timori ancestrali favorirebbero facilmente una maggiore biodiversità complessiva, anche animale. Per il picchio, la cincia, il pipistrello e molti altri animali questo non è affatto un bel luogo dove vivere, nonostante le molte cassette-nido che vedo, mai abitate.
Mi siedo su una panchina, prendo appunti. Sopra di me c’è un tiglio, con le inconfondibili foglie a forma di cuore. Lungo il viale che percorre il parco da un’estremità all’altra ce n’è un doppio filare, omogeneo. Ricordo che a Berlino ce n’era un filare storico che chiamavano Unter den Linden (sotto i tigli), tagliato dai nazisti per far spazio ai carri armati e poi ricostruito in breve tempo dopo la seconda guerra mondiale. Dalle dimensioni, anche quelli di fronte a me hanno sui settant’anni. Sono alberi ancora giovani che, se adeguatamente accuditi, potranno facilmente superare i 5 secoli. Troppo spesso non succede, e così ci meravigliamo di quelli che arrivano a superare il secolo.
Mi sposto verso il percorso dell’autobus e mi fermo a sbirciare fra le sbarre del cancello di un giardino privato. Se non ricordo male, qui abitava un tenore. Sembra molto curato, lo sarà senz’altro. Non ho mai visto un giardino signorile trascurato. Non credo che sia solo una questione di denaro, conosco persone più che benestanti che al giardino preferiscono una piscina o un grande garage con una collezione di auto. È il piacere di stare fra le piante, senza fretta, magari sedendosi all’ombra a leggere qualche pagina; è lo stesso motivo per cui chi non ha un suo giardino decide di fare una passeggiata in un parco pubblico o in un orto botanico. Un piacere da pedoni.
Circonvallazione interna: un piccolo prato ordinato, ben rasato. Uno spicchio verde gradevole, ma non ci sono fiori. Spesso dimentichiamo che per avere un prato fiorito sarebbe sufficiente non far nulla: semplicemente lasciare alle piante il tempo di fiorire. Decapitandole ogni mese, questo non può davvero succedere. È un peccato, anche per le api e i molti altri insetti che dipendono dai fiori e, suppongo, anche per il bilancio comunale.
La strada è affiancata da un filare di platani. Ricordo chiaramente quando piantarono questi. Era il 1988, 34 anni fa. Sono sicuro che una persona non esperta direbbe che hanno quasi cent’anni. Semplicemente, questi alberi sono stati piantati nel luogo adeguato e sufficientemente lontano dalla strada. È per questo che, finora, non sono mai stati potati. A loro è andata bene, certamente sono stati messi a dimora da un buon amministratore delle cose pubbliche. Non posso dire la stessa cosa dei molti altri che vedo quotidianamente, capitozzati con una frequenza dettata dalla disponibilità di denaro e da persone incuranti dei molti effetti negativi della potatura sulla salute dell’albero.
Proseguo il mio cammino verso la periferia. A mano a mano che la città si è espansa, ai quartieri popolari se ne sono affiancati altri, residenziali, destinati alle persone che dal centro hanno preferito spostarsi in case più spaziose e silenziose. Chiamano questo fenomeno gentrificazione, secondo il quale quella che una volta veniva chiamata media borghesia sceglie di spostarsi verso la periferia, modificandola a propria immagine e somiglianza. Il verde urbano che si rifà il trucco. Non conosco le ripercussioni sociali di questo fenomeno, ma in questi casi spesso osservo scelte discutibili e che rasentano il desiderio di ostentazione, come quei costosi ulivi sopraelevati, collocati in centro al giardino e con la chioma ridotta alla forma di scopettone e venduti con un nome commerciale ridicolo.
Ed eccoci nella periferia vera. Una quarantina d’anni fa questa era una strada alberata da entrambi i lati, con platani che formavano una galleria ombrosa che univa, anche simbolicamente, campagna e città. Allargarono la strada e piantarono questi alberelli dal nome strano, di basso costo e di pessima qualità vivaistica nello spazio disponibile: fra il bordo stradale e il marciapiedi, immersi nell’asfalto, sofferenti da subito, suscettibili a malattie che su alberi vigorosi difficilmente comparirebbero. Chi abita qui parte prima della luce e torna col buio, stanco, distratto, con pensieri senz’altro diversi dal fare considerazioni sugli alberi, troppo spesso infilati nel marciapiede come fosse cartelli stradali, puliti dai loro rami perché troppo vicini al bordo della strada, danneggiati irreparabilmente da parcheggiatori frettolosi di entrare al supermercato prima dell’orario di chiusura. Nella periferia dove abito io, da quindici giorni l’Amministrazione comunale ha recintato il pino di un piccolissimo parco giochi per evitare eventuali danni nel caso in cui un ramo spezzato dal forte vento dovesse cadere. Sarebbe bastata un’autoscala e una motosega, ci sarebbe voluto quasi lo stesso tempo della posa delle transenne. Nel frattempo, i bambini aspettano fiduciosi. Questi e molti altri esempi che potrei fare raccontano la generalizzata trascuratezza delle periferie: pensiline non sempre pulite, panchine mai riparate, cestini vuotati raramente e, chiaramente, un verde pubblico (che per definizione appartiene a tutti) vissuto come un costo, un disturbo, un fastidio. Spesso anche dagli stessi abitanti.
Arrivo al capolinea dell’autobus dove ho parcheggiato l’auto un paio d’ore fa. In questo tempo ho passeggiato e osservato senza fretta, come solo un pedone può fare.
Piero non è mai stato un bambino nel senso che intendiamo noi. Non c’era tempo. Prima pastore di pecore su per queste colline, poi a costruire a colpi di piccone la strada che percorro per tornare a casa mia, poi soldato in Grecia (che lui non lo sapeva mica se era davvero la Grecia quella là, che il mare non c’era), poi aiuto fornaio, poi lavoretti vari e alla fine becchino. Sempre al servizio di qualcun altro. Col tempo che restava coltivava il castagneto sopra casa e il brolo di cachi, fichi, meli e merlot. Emma invece faceva la moglie, la madre, patate cornette, sorgo e galline. Pregava e sperava. Sperava tanto. Sperava una stufa economica di quelle col forno e la cassetta per l’acqua calda, un futuro in pianura per i figli e una poltrona per la sera, come quelle sulla Famiglia Cristiana. E invece, con sei figli sgranati con una precisione cronometrica, l’economia familiare galleggiava con difficoltà, soprattutto d’inverno. Per fortuna c’era la Bianca, una capra bianca che garantiva latte a sufficienza per tutti. Bastava allungarlo con l’acqua e metterci dentro tanta polenta. Gialla. Della Bianca se ne occupava la Orsolina, sei anni, che Piero chiamava la piccola e gli altri la Nina. Nel dicembre del Cinquantasei Piero e suo fratello Sergio si fecero prestare il cavallo dai Bruson, lo attaccarono al carro, fecero salire la Nina e andarono alla fiera di Santa Lucia. Tornarono con sei conigli, dieci chili di riso e tre pignatte d’alluminio. La Nina tornò col ricordo del primo zucchero filato, del primo circo, del pagliaccio che continuava a inciampare sulle sue stesse scarpe e dell’orso che camminava goffamente su due zampe. Ne fece anche un disegno per suor Elisabetta, che ci scarabocchiò sopra un grande 9+ blu, rovinandolo. Lei pianse, ma quella sera Piero se la prese sulle ginocchia e le disse che più di nove significava dieci, e che doveva esserne orgogliosa.
Esplosero tutti in una risata, Emma si allontanò per fare il caffè con la Miscela Leone e Piero prese la Nina sopra ai suoi piedi accennando alcuni passi di quel ballo che aveva imparato in Grecia.
Claudio libera i due bracchi al sesto tornante e va ad aspettarli al decimo, al sole, sigaretta in mano, carabina pronta.
Loro braccano. Questo, sanno fare.
Il capriolo scappa, avra’ due anni.
Quando arriva davanti a casa mia sembra correre da sempre, lingua fuori, schiuma dalla bocca, tanta. Prova a saltare la recinzione, cade, si rialza, riprova, cade, si tuffa nella valle di fianco.
Il primo d’ottobre del 1969 fu il mio primo giorno di scuola. Plesso scolastico “Maria Montessori”. Il primo giorno fu abbastanza drammatico, ma lo fu ancor di più per Sergio, abituato a saltare i fossi per lungo e dar la caccia alle rane con la fionda. Io avevo una cartella più grande di me, di plasticone blu cartonato e con due tiracche bianche che servivano a infilarci dentro le spalle per poi correre sgangheratamente. Di fronte alle scuole c’era, e c’è ancora, un campo da pallacanestro con la parte perimetrale a uso pattinodromo, a sinistra la palazzina rosa delle medie e a destra quella delle differenziali: un primo piano al quale si accedeva da una scala esterna come a dover espiare chissà quale peccato prima di poter accedere all’istruzione. Alle differenziali ci mettevano i bambini differenti, alla faccia della Montessori. Quelli che venivano da famiglie così povere che indubbiamente avrebbero rallentato il programma della maestra Franca, quelli un po’ più burrascosi di Sergio che certamente avrebbero rallentato il programma della maestra Franca e quelli che dopo pochi giorni non riuscivano a ricopiare per bene la effe di farfalla che la maestra Franca ghirigoreggiava sulla lavagna. La ricreazione sul piazzale inghiaiato la facevamo in momenti diversi, per una questione di distanziamento sociale. «Fantoìn, i o ga messo ae diferensiài», pronunciata soprattutto scuotendo la testa e allargando un po’ le braccia, significava qualcosa come «povera stella, non è colpa sua, ma noi cosa ci possiamo fare?». Di disagio familiare e di autismo non si parlava, all’epoca. Lo sapevano tutti, ma semplicemente non se ne parlava. Alle differenziali ci misero anche il mio amico Claudio, che abitava a quaranta metri da casa mia. Un bambino enorme, gentile e di troppo poche parole. Claudio è un artista: coltiva bonsai. Specie nostrane, rustiche, in vasi che ricava sbrecciandone di più grandi, mica quelle cose lì esotiche legate col fil di ferro dentro a vasi smaltati di blu. Claudio è quell’omone che, dopo una quarantina d’anni che mancavo dal paese, al funerale di mio padre mi è venuto incontro, mi ha detto «condoglianze, Lucio» posandomi una mano sulla spalla attraverso il finestrino aperto e mi ha aiutato a parcheggiare la macchina sul piazzale della chiesa.
In fondo sì, è vero, Claudio è sempre stato differente.
Due volte all’anno passavano sull’argine di fronte a casa i due soliti pastori di Monte Magrè con un centinaio di pecore, due cani neri e due asini carichi di quel che serve: una tenda dentro alla quale ripararsi di notte, ombrelli enormi, vestiti vari e cibo durevole.
Erano incontri brevi.
Giusto il tempo di aggiornarsi reciprocamente sulle novità degli ultimi sei mesi, perché c’era da lavorare, ma i due pastori se ne andavano sempre con due grandi sacchi di pane.
Mio padre, invece, rientrava con gli occhi felici e un sacchetto di noci raccolte chissà dove e chissà quando.
Nostrane, piccole, con la scorza che lascia le dita nere di tannini. Dure da rompere, croccanti da mangiare.
Un concentrato di sapori antichi che ritrovo in quelle che stanno cadendo dai due noci che ho di fronte.
Lo sapevamo da anni, lo sapevamo tutti ma abbiamo continuato a sprecare energia non nostra, sperando che chi ce l’aveva fosse disposto a vendercela al prezzo che andava bene a noi.
Legna, pellet, metano, petrolio e corrente elettrica. Tutta robetta d’importazione, come le arance per le guarnizioni dei cocktail, i gamberoni sudamericani, il salmone al banco del supermercato, il telefonino sul quale sto scrivendo e l’olio di girasole.
E poi quel che non ci arriva fino a casa ce lo andiamo a prendere, inquinando mezzo mondo a caccia di emozioni e selfies e stories negli Stati Uniti o alle Canarie, a mangiare quello stesso salmone da supermercato che trovi al Billa.
Leggo sul giornale di oggi che la produzione delle bottiglie di vetro avrà un drastico calo, ma che sarà garantita la priorità a un noto colosso internazionale della birra. E con l’acqua come facciamo, sempre nella plastica? Mah…
Qualche giorno fa ho letto del grande trauma che saremo costretti a subire a causa della poca disponibilità di anidride carbonica per fare bevande gassate, quelle cose che trasformi in rutti che diventano gas serra. Mah..
Intanto il mio amico Fabio ha un orto ricco e vario, le galline, le capre, scrive poesie e lavora da casa, che lo smart working se l’è inventato lui molti anni fa.
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Riporto un brano tratto da “Pane e Noci” (l’editore mi rimproverera’, lo so).
“All’inizio degli anni settanta ci arrivava meno petrolio di quando ne servisse e, come conseguenza, i consumi inutili vennero proibiti. Chiamarono quel periodo Austerity. In inglese, non so perché.
Le insegne elettriche dei negozi vennero spente, c’era un lampione acceso ogni tre ma, soprattutto, nei giorni festivi si potevano usare solo i mezzi pubblici.
Renato andava al ristorante in taxi.
Noi invadevamo le strade coi palloni, i pattini e le biciclette. Quegli spazi diventarono nostri.
Imparammo che consumare e inquinare meno è possibile e senza drammi, ma lo dimenticammo in fretta.
Dopo cinquant’anni continuo a vedere lampioni accesi ovunque, palazzi pubblici illuminati a festa per una qualsiasi celebrazione, frecce tricolori inquinare il cielo col plauso di tutti noi, sale d’attesa col condizionatore in funzione in giugno, persone che pur di non camminare trecento metri prendono la macchina.
Le nostre amministrazioni stanno dando l’esempio giusto?
Col contributo dello Stato abbiamo buttato via diciassette milioni di televisori e di decoder funzionanti, che sono finiti dapprima nell’isola ecologica più vicina e poi chissà dove.
Sono stati regalati soldi a chi voleva comperare l’indispensabile monopattino a batteria, ma non ho ancora capito perché chi ripara il frigorifero invece di sostituirlo, chi va in bicicletta, chi legge un libro o chi fa l’amore non riceve un premio.
Per le crociere ecologiche negli arcipelaghi incontaminati usiamo navi che montano 6 motori a nafta pesante da 1.800.000 cc ciascuno, che necessariamente restano accesi anche quando sono ferme in porto.
Credo che questa crisi climatica sia figlia di una crisi culturale ampia e trasversale, nella quale abbiamo tirato dentro anche quei miliardi di persone che di questo nostro progresso non hanno goduto e che, giustamente, vorrebbero assaggiarne finalmente un pochino: un telecomando da pigiare a piacimento, un divano motorizzato, un frullato di mirtillo biologico o un viaggio in Italia a 19,90.
Continuo a chiedermi perché non licenziammo l’Amministratore della Terra s.p.a. quand’eravamo in tempo.
L’avevamo delegato noi, me lo ricordo bene”.