Ah… che bello ricevere questo messaggio da un amico che non conosco ancora di persona.
Lo vedi, che i social servono?
Grazie, FG
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“L’ho finito di leggere.
Ieri sera.
Il fatto è che avrei potuto divorarlo.
Invece no.
Non potevo.
Volevo godermelo un po’ alla volta.
Così è stato.
E mi dispiace che sia già finito.
Il fatto è che ogni brano è una sciabolata di emozioni.
Forti e contrastanti.
Mi hai commosso più volte.
Ho riletto un paio di brani sabato mattina ad un amico.
E mi sono commosso ancora.
Ho compreso i tuoi complimenti alle mie storie.
È un grande onore.
Mi ci sono un poco ritrovato (con grande umiltà).
Tu scrivi in maniera diretta e devastante.
Breve ma intenso.
Molto.
Con la frase finale che ogni volta ti trafigge, e ti lascia in silenzio ad asciugarti.
Grazie di Cuore Lucio.
Lo rileggerò presto.
So che ci incontreremo nel tuo bar. A bere quel bicchiere di bianco.
A parlare di pane e noci, e altro.
Riconosco con facilità le commestibili e le tossiche, perché me l’ha insegnato mia madre.
E poi ci sono anche otto insetti e un ramarro, che sta prendendo il sole su una pietra. Dentro a quella buca c’è sicuramente una talpa.
In tutto fanno trentatré specie in pochi metri quadrati.
No, trentaquattro: sono di questa terra anch’io.
È la meraviglia della diversità biologica, quella cosa che non ha bisogno di essere forzata con piantagioni costose, buone per prendere soldi o voti o andare sul giornale, ma di tempo”.
La strada di fronte al mio terrazzo separa due mondi diversi.
Cento metri che sembrano cento anni.
Di qua un condominio moderno e anonimo, qualche albero dal nome esotico, una rete verde e dei cipressini fitti che servono per proteggerci dallo sguardo di chi passa.
Di là la cascina di Gino, un grande platano, il campo coltivato e una siepe di acero leggera e bassa che gli serve per la stufa.
Dal mio terrazzo lo vedo sempre intento a far qualcosa, col trattore sotto al portico, il frumento maturo e, poco più in là, l’argine del Bacchiglione. In quella direzione il sole resta acceso sempre un po’ più a lungo, colora i campi di bell’arancione acceso e accompagna Gino nella sua consueta passeggiata serale, col cane che gli corre dietro.
– “Pane e Noci” inizia così, come la mia giornata 🙂 –
Oggi è la Giornata mondiale della Terra, oggi si festeggia l’ambiente e la salvaguardia del pianeta Terra.
A me piace celebrare la terra nel senso di terreno, di suolo.
«Se un giorno avrò soldi mi piacerebbe comprare terra, tanta terra», ripeteva spesso Giorgio nell’appartamento che dividevamo da studenti. Il giorno del suo matrimonio gliene regalammo un vaso. Sono passati vent’anni e di terra tutta sua non ne ha ancora, ma quel vaso ce l’ha su una mensola nell’ufficio.
. Il fatto è che ci è innato, il legame sentimentale con la terra e i suoi frutti, noi compresi.
Ci piace sporcarci di terra mani e piedi, ci piace odorarla.
Un mio amico di Barcellona prima di seminare la assaggia. Un rituale poetico.
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Anche la pioggia, oggi, festeggia la terra. E la terra ricambia profumando finalmente di primavera.
Anche lui a ricordarci che la primavera è finalmente arrivata.
Vecchio? Non lo so e, sinceramente, queste cose dell’età, del diametro e dell’altezza non mi hanno mai appassionato.
E poi, vecchio rispetto a cosa? All’albero più vecchio? Al salice da vimini più vecchio? E come si misura l’età di un albero, in anni? E se anche fosse, fra cento o duecento anni cosa cambierebbe? Una foto in più?
La sua fortuna è vivere lungo questo fosso abbandonato, lontano dall’appetito di terra del proprietario di adesso; “proprietario”, boh… forse lui non sa neanche di averlo, diversamente dalla volpe che da anni ci fa la tana lì sotto.
Secondo me un centinaio d’anni fa era già grossomodo così, col fusto tozzo e la chioma bassa, generosa di rami elastici che qualcuno tagliava regolarmente per legare delle viti che adesso non ci sono più.
Sì, è facile che sia sopravvissuto perché era utile e che poi sia stato dimenticato perché dov’è non dà nessun fastidio.
Dimenticato: libero di scegliere. Di adeguarsi a equilibri sempre diversi causati dalla carie che gli sta trapassando la base.
Con tutti quei segni di un passato di cicatrici curate a vento e acqua, di tentativi di trovare il modo meno peggio per uscirne, qualcuno lo chiamerebbe veterano, qualcun altro monumentale. Aggettivi, inutili aggettivi.
Lui se ne frega, ne sono sicuro, e pian pianino ce la mette tutta e ci sta riuscendo. Con calma, che il tempo non gli manca.
Eccoli là, quei bei cordoni legnosi che salgono dalle radici e lo percorrono fin su in alto. Per ora servono a inscatolare e irrobustire quell’ampia porzione bucata, come fanno i contrafforti delle vecchie mura di Padova. Una corazza mano a mano che serve; su misura, ecco. Quando il fusto più vecchio si spezzerà a terra sarà uno di loro a diventare fusto, o più di uno.
Andrà avanti così, a lungo, per chissà quante primavere di fiori cotonosi, grigini, invisibili a chi non li vuol vedere. Il fusto più malandato cadrà lasciando spazio a quei cordoni, che metteranno su una bella chioma ricca e poi dalle radici verranno su nuovi germogli, che non si sa mai.
E via che va.
Perché gli alberi sanno. Non saranno animalmente intelligenti, ma stupidi non lo sono di certo (che poi, definire noi stessi intelligenti proprio in questo periodo, ci vuole tutta).
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Pasquetta da sempre è una giornata da bicicletta e argini, fuori c’è un bel sole tiepido e Netflix può aspettare, credetemi.
Cercate uno di questi bei salici campestri, ce ne sono tanti, e fermatevi anche voi a dargli un salutino.
– in occasione del Darwin Day riporto questo racconto tratto da “Germogli”, 2020, Cleup Ed. –
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Famiglia aristocratica, quella del signor D’Arvì.
Secondogenito, il padre lo voleva prete.
A Carlo invece interessavano i funghi, le piante e gli animali. E così, a venti anni si imbarcò come mozzo dal porto di Genova verso il Borneo, a riflettere sulle cose della vita e a osservare alberi, liane, uccelli col becco tozzo e tartarughe giganti. Tutte cose che aveva già immaginato dai racconti di Salgari e dai dipinti di Ligabue.
Più che altro fu un viaggio dentro sé stesso, che lo fece tornare un bel po’ diverso: look hipster, un quaderno sempre in mano, sguardo perso nel vuoto e ragionamenti strambi.
A volte condividiamo lo stesso tavolino d’angolo, al Centrale. Io mi porto qualcosa da leggere e lui il solito quaderno, sul quale disegna tratti decisi e veloci.
A volte sembra quasi che la matita faccia tutto da sola, come in un film d’animazione: l’albero cresce, l’edera gli corre dietro, ogni tanto cade un ramo e ne spunta un altro, gli uccelli ci fanno il nido e dopo un attimo volano via. La neve cade e dopo qualche secondo è già estate.
«Ma come fa a disegnare i movimenti delle piante?».
Circospetto, verifica che attorno non ci sia nessuno.
«Vede, professore, è la mia mente a disegnare. Quand’ero a Sumatra ho abbracciato la dottrina Junida e scoperto il potere della Caskia».
«L’albero sacro! Quello che geme linfa rossa come il sangue!».
«Lo conosce anche lei?».
«Per sentito dire …».
«Non l’ha mai provato, vero? Senta, oramai c’incontriamo qui da un po’ di tempo e lei mi sembra una persona discreta. Favorisce?».
Mi allunga una fiaschetta d’argento istoriata con un San Giorgio a cavallo di un drago.
Odore di pollo arrosto.
«Si fidi, si fidi. Ne faccio uso da cinquant’anni e sono ancora qui».
– Si, ma ti sei visto? E adesso cosa faccio? Bevo? E dopo? Però quando mi ricapita? –
Riempio il tappo, è un liquore violaceo e denso.
«Meno! Molto meno!», ride. «Permette? Faccio io».
«Chiedo scusa, sono abituato con la grappa di Moris».
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Tamburi, colori, profumi, testa che scoppia.
– Stavolta l’ho fatta grossa –
Esco a prendere un po’ d’aria, solo che fuori dalla porta non ci sono più la strada né la banca: c’è un sentiero nel bosco e lui sta passeggiando davanti a me con un signore magro vestito da parroco.
«Le presento il collega Gregorio, questo è il nostro appuntamento del martedì sera. Lui è di Brno e conta piselli».
«In che senso?».
«Nel senso che conta piselli» esclama battendogli una pacca scherzosa sulla spalla. «No, dai, seriamente: sta facendo uno studio complicato sulla genetica. Gli piacciono la statistica, i piselli, la Kozel e l’erba pipa. Le donne un po’ meno».
Ridono complici, come due amici di vecchia data.
«Quello là in fondo invece è un pittore olandese. Per venire fin qui succhia il blu dai tubetti di colore che si fa spedire dal fratello».
Chiacchierano garbatamente. Camminano lentamente con le mani dietro alla schiena.
Io mi guardo attorno e l’erba cresce, fiorisce e secca in pochi secondi. Gli alberi giovani diventano subito vecchi e nel frattempo i loro germogli si allungano, si rompono e ricrescono cambiando mille forme, sempre diverse.
Il bosco rovesciato a terra dalla tempesta di pochi anni fa sta crescendo a vista d’occhio. Il seme caduto in sovrabbondanza ha già fatto un tappeto di alberelli senza alcun aiuto. I funghi stanno trasformando in humus i tronchi che non sono stati tolti per tempo e il faggio sta prendendo il posto dell’abete, piantato cento anni fa contro il suo volere.
Mi giro e li guardo a bocca aperta, ma loro mi sorridono indicandomi il bosco nuovo, che ora è già adulto.
«Benvenuto fra gli Junida, Lucio. Non preoccuparti, è l’effetto del succo. Rallenta il metabolismo di mille volte. Un’ora sono mille ore. Il tuo sangue scorre alla velocità della linfa di Caskia e il tuo battito è rallentato tanto da essere impercettibile. Te lo ricordi The Matrix? Ecco, diciamo che hai preso la pillola rossa.
Questo è il mondo che ci sta attorno da sempre, accessibile a chiunque abbia il coraggio di attraversare la porta del tempo.
Da adesso gli alberi e i boschi ti saranno diversi. Ti saranno diversi i salici, i castagni, i ciliegi e …».
Agostino li odia, i bambini. E i loro gridolini e i loro giochi e i loro bei parchi all’ombra.
Agostino odia anche il suo nome. Che non è mai stato bambino, lui.
Che a otto anni tendéva le oche sull’argine e faceva tutto quel che gli comandavano di fare, porcadiquellatroia. Anche sotto al sole canchero d’Agosto, a sgranare granturco o a tirar su l’aglio da mattina a sera.
Agosto, ecco. Agosto, avrebbero dovuto chiamarlo. Che non è mai stato bambino, lui.
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Agostino taglia i rami dei pini, toglie l’ombra ai bambini.
Ramoscelli insofferenti, impulsivi. Combattuti fra la voglia di scappar fuori dalla chioma e quella di restare. Là, dove erano nati. A continuare la parte che i loro vecchi non erano riusciti. Perché ‘casa’ significava quella cosa lì.
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Tutte le domeniche, dopo la messa, i vecchi di Terrenuove andavano alla quercia.
Cercavano i segni di una rinascita che anche quell’anno, prima o poi, sarebbe arrivata.
(ripropongo un post di un anno fa, mi sembra il caso).
Ho la fortuna di frequentare la montagna dai miei primi tre mesi di vita: Asiago in versione “quattro stagioni”.
Il mare era a mezz’ora e la montagna a un’ora e mezza, ma i miei hanno sempre, decisamente preferito la montagna. Dev’essere per via del richiamo delle radici montane testimoniato dai loro cognomi, o che i nostri cromosomi si orientano più facilmente verso il nord magnetico.
Fatto sta che iniziai a sciare non appena i miei piedi diventarono lunghi abbastanza per calzare quegli scarponcini di cuoio alti fino alla caviglia, coi lacci rossi e la suola con la punta piatta e il tacco scanalato.
Sci di legno senza alcuna marca evidente e con gli attacchi che bloccavano senza via di scampo gli scarponi, con una molla tutto attorno e una leva sul davanti.
I primi rudimenti li imparai dal maestro Claudio (il figlio di Lino, il custode del cimitero inglese del quale ho già avuto modo di scrivere).
Tutto questo succedeva di mercoledì, perché di domenica “c’è troppa gente” sentenziava papà (una quarantina di persone in tutto; oggi fa sorridere, lo so).
Mio padre veniva a prendere Fabio e me con la ottoecinquanta blu a scuola verso mezzogiorno per spendere assieme un pomeriggio sulla pistina di Cesuna, ricavata tirando uno skilift (“il gancio”) lungo il prato sul quale fino a due mesi prima pascolavano le stesse vacche che sarebbero tornate in primavera (si dice pascolo e non prato, ma volevo evitare il gioco di parole. E si dice vacche, che non è una parolaccia).
Il ’74 consacrò la “valanga azzurra” e Gustav Thoeni, uno col cuore di Zeno Colò ma molta più tecnica, con dei cambi di ritmo tali da riuscire a scalare due marce in curva, buttare fuori dal baricentro ginocchio e spalla e ridurre il raggio di curvatura in una frazione di secondo, proprio un attimo dopo il paletto di legno.
Nel frattempo io ci davo di spazzaneve, di “peso a valle” e di “bruco” (per imparare a cadere senza rompersi le caviglie). Poi finalmente imparai a comandare io: peso a monte, molleggio, bastoncino, cambio, rimolleggio e spinta su caviglie e tibie.
Nei tratti diritti cercavo di prendere la posizione “a uovo” per imitare Pierino Gros.
Da fermo, invece, mi piaceva fare un saltino sui tacchi prima di lanciarmi giù meglio che potevo, emulando Thoeni al cancelletto di quel favoloso, indimenticabile parallelo in Val Gardena contro Stenmark. Di loro avevo due grandi poster comperati in una libreria del centro a Padova. Ho cercato anche quello di Klammer per molto tempo, senza successo.
Poi ci fu la tragedia di Leo David e la valanga azzurra si sciolse come neve al sole, ma nel frattempo alcune aziende artigianali si erano già industrializzate e divennero famose: Spalding, Colmar, Caber e La Tecnica, che inventò e lanciò un doposci che divenne status symbol anche per chi abitava in Piazza dei Signori. Il Moon Boot. Uno stivale peloso buono per lo spritz, ma all’epoca lo spritz era troppo plebeo.
La moda dirompente dello sci da discesa decollò parecchi anni dopo con “Tomba la bomba”, il caschetto, il burro di cacao colorato, gli occhiali polarizzati, le giacche e le braghe larghe, gli scarponi fluo, i comprensori da millemila chilometri intervallati da finte baite col brulè e il solarium, gli alberghi e le seconde case con accesso diretto alla pista per quelli che “io vivo nella natura”.
Qualche discoteca in centro e, soprattutto, un bendiddìo di turisti ricchi e schiamazzoni che non sapevano neppure dov’erano, che fingevano e fingono tuttora di ignorare che la neve finta (che già a chiamarla neve mi mette tristezza) viene fatta squarciando la montagna per metterci dentro vasche e tubi e che da quella striscia bianca si muovevano solo per rientrare in tempo per il brulè serale rigorosamente con fettina d’arancia, nello stile del punch.
L’industria dello sci (perché di industria si tratta) intanto procedeva al ritmo della cavalleria rusticana: colossi finanziari ignoti piantavano da un anno all’altro piste nuove, alberghi, piscine coperte e tutto il resto. Noi, stupidamente, ridevamo.
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Ho smesso di andarci, in quei posti là. Da almeno trent’anni.
Con Fabio, Giorgio e altri coetanei siamo passati allo sci da fondo nella sua versione vecchio stile: squamatòni Slegar e via, fino a perderci parecchie volte come quella notte, uno dietro all’altro, con la vetrata illuminata di un albergo lontano come unica stella polare.
E poi un bellissimo giorno abbiamo deciso che “basta così” e, vestiti come al solito con quel che c’era in casa, abbiamo preso una ovovia e ci siamo lanciati fra i turisti fighetti e lenti.
Giù, col solito zaino di cotone sulle spalle e gli sci da fondo ai quali avevamo dato una definitiva passata di cartavetrata per spianare la maggior parte delle squame, decretare la morte anche di quelli e, per quel che ci riguardava, di tutto quello che il business della montagna d’inverno significava, voluto da businessmen pronti a investire indifferentemente in un comprensorio sciistico, in un resort galleggiante in Thailandia, in uno zoosafari coi leoni spelacchiati o in un parco acquatico coi delfini in gabbia. Quelli che dicono ventiventi, ventiventuno e ventiventidue, per intenderci.
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Continuo a frequentare la montagna, sia chiaro, e la amo così tanto da abitarci.
È che, semplicemente, la montagna non può essere oggetto di profitto brutale, umiliata da raffiche di neve finta sparata dentro a corridoi racchiusi da boschi finti.
Se scaricassimo qualche milione di tonnellate di sale nel Garda solo per poterlo chiamare mare, non sarebbe stupido?
E allora perché non riteniamo stupida la scelta di coprire di polvere di ghiaccio strisce di montagna, là dove la neve non cade oramai da trent’anni, con tutte le implicazioni ecologiche di breve e (quel che mi preoccupa di più) lungo periodo?
Spero che il turismo invernale non mancherà, in queste nostre montagne con gli impianti di risalita vincolati al Green Pass. Questa potrebbe essere finalmente una buona occasione per visitare davvero la montagna, quella vera.
Mettiamo da parte, almeno per quest’anno, le riviste patinate e le guide VIP.
Cominciamo a girarle, queste nostre valli.
Lentamente.
A fermarci nei paesini che il sito internet non ce l’hanno, a ricreare un indotto economico nelle periferie dei comprensori più famosi.
Ci sono un sacco di luoghi meravigliosi da visitare e persone belle da incontrare, ovunque.
Il megafono di una macchina rossa guidata da un clown avvisava che stava per arrivare il circo e noi non vedevamo l’ora che finisse la scuola per correre a casa, pranzare velocemente e ritrovarci fra tutti quei vagoni variopinti.
Una zebra legata all’ombra di un albero, un leone spelacchiato steso dentro ad un carro con le pareti di sbarre, un orso che faceva avanti e indietro nel carro di fianco e l’immancabile elefante accompagnato a sgranchirsi nel campo sportivo, al centro del quale una quindicina di persone piantava picchetti, tirava corde e alla fine alzava il tendone a righe rosso sporco e bianco sporco.
Dopo le prime volte imparammo che per restare nei paraggi senza essere cacciati in malo modo bisognava fare amicizia fin da subito coi bambini del circo, che per quei pochi giorni venivano nella nostra scuola e ci raccontavano cose fantastiche.
Non ho mai visto un grande dei nostri parlare con un grande dei loro; chissà quante cose avrebbero potuto raccontarsi.
L’autista di quella macchina rossa passava i pomeriggi a tirar via cacca da sotto le sbarre delle gabbie usando un rastrello col manico lungo.
La sera, quello stesso signore vestiva di nero e dalla cassa urlava “venite gente”.
A metà spettacolo, sempre lui entrava sotto al tendone col viso dipinto di bianco, il naso rosso e un cappello a cono, si ingamberava nelle sue stesse lunghissime scarpe, prendeva in giro il domatore e minacciava il leone assonnato sparando da una pistola a molla una pezzetta con scritto Bang.
Per noi bambini, il circo era il mondo dello zucchero filato, della musica, dei colori, dei clown, dei trapezisti e dei fantini.
Era anche l’unico modo per vedere una zebra, un orso o un elefante.
Chi accompagnava i bambini allo zoo era contrario all’uso degli animali da spettacolo, diceva che era immorale.
A poche centinaia di chilometri da qui c’è un posto in cui, nel luglio 1995, ammazzarono quasi tutti i maschi capaci di tenere in mano un fucile. Alcuni riuscirono a scappare e così gli bruciarono le case, che non si sa mai.
A Srebrenica e nei dintorni rimasero solo vedove e bambini orfani.
Nel mondo rimasero domande che non hanno ancora trovato una risposta sensata.
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Il mio amico Gianni, che fino al pensionamento aveva lavorato nella gestione di boschi e malghe dell’Altopiano di Asiago, visitò quei luoghi nel 2009. Quasi per caso.
Parlò con le vedove e i ragazzini, visitò i pascoli oramai invasi dalla felce e dal rovo e, senza pensarci troppo a lungo, decise che gli anni a venire li avrebbe spesi cercando di creare le condizioni per una ripartenza sociale ed economica.
Si consultò con Lella, tirò fuori i soldi che aveva da parte, ne cercò altri, trovò un gruppo di persone buone quanto lui e in poco tempo, molti viaggi e parecchie difficoltà riuscì a far decollare il progetto “La transumanza della pace”: a portare fin là 137 vacche e molti attrezzi agricoli, a restaurare le stalle meno fatiscenti e a far rivivere buona parte di quei pascoli.
Un giorno gli manifestai la mia ammirazione e gli chiesi dove trovasse tutta quella forza d’animo.
Lui mi rispose che era così, che fra gente di montagna si fa così, che anche suo padre avrebbe fatto la stessa cosa.
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Gianni torna a Srebrenica tutte le volte che può, organizza corsi di formazione, visite veterinarie e costruisce piccole stalle moderne anche grazie al contributo di persone e istituzioni generose e ai proventi del suo libro “Ti ho sconfitto felce aquilina” (è un libro che fa bene, leggetelo).
Il latte è ottimo, sano, prodotto da vacche che mangiano erba e fieno, ma chiaramente è difficilmente conservabile.
Il prossimo passo perciò sarà la costruzione di un caseificio sociale, per farne anche del buon formaggio. Di quello che sa di erba e di fiori di montagna.
Il progetto si chiama “Il Caseificio della Pace”: Potete trovare molte informazioni su http://www.gaong.org.
Potete anche fare una piccola donazione o far conoscere questa bellissima iniziativa a chi potrebbe farlo, che così Babbo Natale vi porta di sicuro un bel regalo.