Tag: ambiente

Ahhh…

Questa mattina un amico cercava di convincermi che la ruggine sul cofano della sua Punto è causata dall’aumento del prezzo della benzina.

Ho cercato di farlo riflettere sul fatto che le due cose non possono essere minimamente associate, che sarebbe come correlare la probabilità di tumore ai polmoni al numero di scarpe, ma niente… lui dice che lui è un esperto di pneumatici e che lui queste cose lui le sa, che è anche certificato dall’omino miscelen, e che imbianchini e fruttivendoli pensano che lui abbia ragione ma che, a ben pensarci, effettivamente potrebbe dipendere dalla marca della benzina, dal prezzo al superself e forse anche dalla salute degli scimpanzé. Ma che questo sarebbe da dimostrare.

Grazie a Dio è venerdì 🙂

Foto: autoritratto.

(questo post, pubblicato nella sezione “sassolini”, lo capirete in pochi: chiedo davvero scusa ai molti)

LM

Caro amico ti scrivo

Ah… che bello ricevere questo messaggio da un amico che non conosco ancora di persona.

Lo vedi, che i social servono?

Grazie, FG

“L’ho finito di leggere.
Ieri sera.
Il fatto è che avrei potuto divorarlo.
Invece no.
Non potevo.
Volevo godermelo un po’ alla volta.
Così è stato.
E mi dispiace che sia già finito.

Il fatto è che ogni brano è una sciabolata di emozioni.
Forti e contrastanti.
Mi hai commosso più volte.
Ho riletto un paio di brani sabato mattina ad un amico.
E mi sono commosso ancora.

Ho compreso i tuoi complimenti alle mie storie.
È un grande onore.
Mi ci sono un poco ritrovato (con grande umiltà).
Tu scrivi in maniera diretta e devastante.
Breve ma intenso.
Molto.
Con la frase finale che ogni volta ti trafigge, e ti lascia in silenzio ad asciugarti.

Grazie di Cuore Lucio.
Lo rileggerò presto.

So che ci incontreremo nel tuo bar. A bere quel bicchiere di bianco.
A parlare di pane e noci, e altro.

A presto”

❤️🌳❤️

22 maggio, Giornata mondiale della biodiversità

“Nel giro di uno sguardo conto ventitré piante.

Riconosco con facilità le commestibili e le tossiche, perché me l’ha insegnato mia madre.

E poi ci sono anche otto insetti e un ramarro, che sta prendendo il sole su una pietra. Dentro a quella buca c’è sicuramente una talpa.
In tutto fanno trentatré specie in pochi metri quadrati.

No, trentaquattro: sono di questa terra anch’io.

È la meraviglia della diversità biologica, quella cosa che non ha bisogno di essere forzata con piantagioni costose, buone per prendere soldi o voti o andare sul giornale, ma di tempo”.

(Pane e Noci, Ronzani Editore).

LM

Faremo meglio la prossima volta

cortina

Il viale che ho percorso in questa giornata di freddo e neve fa mostra della sua bruttezza.

Alberi massacrati da presunti potatori, incaricati da amministratori di un bene pubblico. Anche mio.

E’ il solito, prevedibile gioco delle parti (A: amministratore, P: potatore):

A: Abbiamo deciso di potare quel viale di frassini. Con tutti quei rami gli alberi sono proprio brutti. E poi, sa, ci coprono i cartelli pubblicitari.

P: Va bene, è il mio lavoro. Rimonda del secco e potatura di selezione, personale certificato, 15 mila euro. (Però … hmmm … guardi che sono aceri).

A: Ah … grazie, ma non abbiamo tutti quei soldi.

P: Va bene, facciamo una cosa un po’ meno accurata. Sono 10 mila.

A: Non ce la facciamo ancora, però una sistematina bisogna darla, ce l’abbiamo in bilancio.

P: Va bene. Per 5 mila riusciamo a fare qualcosa di veloce nei ritagli di tempo. Tiriamo giù i rami più grossi e l’effetto si vede.

A: Affare fatto. Casomai faremo meglio la prossima volta.

 

Mi ricorda una vecchia barzelletta che racconta di un signore al quale è morta la suocera e chiede un bel funerale al titolare dell’impresa funebre (G: genero, I: impresario)

G: Sa, è stata una santa donna, se non ci fosse stata lei a seguirci i bambini …

I: Va bene. Una bella cassa di mogano e un copricassa di rose rosse. Sono 15 mila euro.

G: Qualcosa di più economico?

I: Va bene. Cassa in abete e due ceste di iris, 5 mila euro.

G: Non ce la faccio ancora. Però è una cosa che va fatta, oramai i parenti sono in arrivo.

I: Va bene. Mi porti qui la vecchia che vediamo come sistemarle 4 manici. 300 euro.

G: Affare fatto. Casomai faremo meglio col suocero.

 

Lucio Montecchio

Forma e sostanza

radici

Nel lungo percorso evolutivo da alghe a muschi a felci ad alberi, quest’ultimo forse è stato il passaggio più impegnativo.

Le prime felci, infatti, come i muschi non avevano ancora un vero sistema vascolare e di sostegno. La crescita era perciò sostanzialmente orizzontale.  Però avevano già imparato ad abbozzare delle radici e a subire volentieri la coltivazione da parte di batteri e funghi simbionti, grazie ai quali potevano finalmente spostarsi anche lontano dall’acqua, allontanandosi così dalla competizione per lo spazio e i nutrienti delle altre specie.

La convivenza però imponeva una produzione di energia crescente, che le piccole foglie non potevano soddisfare. Non restava che giocare sulla quantità, allungando il fusto verso l’alto e ricoprendolo di foglie ben separate in modo tale che ognuna potesse massimizzare la fotosintesi.

A questo ci poteva pensare quella gemma apicale in costante sviluppo, ma la parete delle cellule, fatta di fibre di cellulosa, era troppo elastica: dopo qualche centimetro il fusto si afflosciava a terra.

Errore su errore, le felci inventarono la lignina che, mescolata alla cellulosa, come una resina irrigidiva la struttura complessiva. Alla stregua di un cemento armato moderno, ora le pareti del sistema vascolare erano elastiche ai movimenti di trazione e torsione del vento, ma anche resistenti al peso e alla compressione della massa sovrastante. La miglior proporzione fra le due componenti sarebbe stata affinata nel tempo.

Mantenendo rigido e stabile il diametro dei vasi linfatici, le felci potevano allungarsi molto più in alto e gestire la pressione della linfa aprendo e chiudendo gli stomi.

L’acqua finalmente risaliva dalle radici portando alle foglie ormai lontane i sali minerali, per poi scendere distribuendo energia a tutto il corpo e riprendere il ciclo verso l’alto.

Chiaramente le felci meno capaci perdevano l’equilibrio e cadevano a terra, diventando cibo per batteri, funghi e insetti e poi humus. Anche il suolo stava evolvendo, e in breve iniziarono ad apparire veri e propri boschi di felci.

Quel diametro sempre uguale a quello del primo giorno, però, non permetteva di reggere troppo peso: oltre il paio di metri il fusto enesorabilmente si rompeva.

La geniale soluzione fu la conicità di fusto e radici. A partire dalla base, il diametro diminuiva sia con l’altezza sia con la profondità, mantenendo così il miglior rapporto elasticità/rigidità rispetto al vento e alla coesione del suolo.

Erano nati i primi alberi e, grossomodo, assomigliavano agli attuali abeti.

Questa assoluta novità fu realizzata avvolgendo il fusto ogni anno, tutti gli anni, di una guaina fatta di un nuovo circuito linfatico che gradualmente faceva perdere di efficienza il vecchio il quale, riempito dei prodotti di scarto della pianta, assumeva sempre più il ruolo di sostegno fisico.

La guaina, poi, era in grado di produrre gemme identiche a quella apicale anche lungo il fusto e le radici, permettendo finalmente di produrre rami laterali, ciascuno con la propria chioma di foglie, e radici da radici, ciascuna con la propria chioma di apici assorbenti.  “Nodi su nodi ammonticchiando ….”

In questo modo, le gemme originavano un ramo se esposte all’aria oppure una radice se sottoterra. Nel tempo gli alberi impararono anche a produrre gemme di scorta sotto la corteccia, da attivare nel caso qualche ramo lì vicino si rompesse.

Da allora e quotidianamente gli alberi imparano dal suolo, dal vento e da loro stessi come migliorare la propria stabilità e fin dove svilupparsi.

Da giovani si allungano verso l’alto e si espandono verso l’esterno. Con l’età, il peso e gli acciacchi a volte cercano nuovi equilibri, lasciando seccare e cadere qualche ramo per rifarlo dove è più conveniente.

E’ nella loro natura, e non c’è potatura che possa convincerli del contrario. Perchè sono Esperti.

Lucio Montecchio

Semplicemente Alberi

 

La ragazza all’Ikea mi ha detto che quel che stavo cercando era temporaneamente esaurito, ma che avrebbe fatto una riservazione a mio nome. Ringraziando, ho sorriso.

Tornato a casa, alla TV ho saputo di un bravo calciatore che finché gioca sa anche verticalizzare il pallone. Dev’essere bravissimo!

Tra le essenze arboree preferisco quella di cedro: mia moglie la usa nel soggiorno. In giardino, invece, gli alberi li ho fatti piantare a un giardiniere, perché il professionista del verde voleva piantumarli.

Non so, ma far piantare alberi a un esperto di colori non mi sembrava una buona cosa.

Sono molti anni che sento neologismi da cabaret e parole a vanvera.

Spesso sorrido e lascio correre.

Qualche giorno fa, il sindaco E.R. ha postato (postare … che schifezza di verbo) scritto “farò richiesta di inserire delle essenze adatte al quel piccolo spartitraffico nelle prossime piantumazioni. Bene: dov’è il problema? E’ un sindaco bravissimo, in Municipio ci vive e i problemi li risolve. Non è un botanico e non è un arboricoltore. E’ un Sindaco. Che si è impegnato a metter giù piante adatte a un piccolo spartitraffico.

Conosco arboricoltori che rischiano l’infarto ogni volta che sentono dire essenza, ma poi sono i primi a confondere patologia e malattia. A dire mìdia, giùnior o a non saper scrivere il plurale di quercia.

Anch’io continuo regolarmente a definire l’albero un individuo, a dire che ha la pelle, e che le ferite le cicatrizza. Chi è senza peccato …

Quel che davvero non sopporto, però, è l’uso di elemento arboreo. Riduce l’albero a una cosa statica, immutabile. Soprattutto, mi ricorda quell’implicito senso di disprezzo che c’è in materiale umano.

Probabilmente dire “albero” è troppo breve, mentre “elemento arboreo” dà l’idea di averci ragionato. Quanto meno, è innegabile che a pronunciarlo riempia la bocca.

Si arriva poi all’abuso, perpetrato da chi degli alberi conosce il nome, la forma o il significato simbolico. Per questi professionisti, anche loro del verde, è luogo comune che in un parco siano “elementi d’arredo” la panchina, il cestino per le immondizie e la fontanella e “elementi arborei” gli alberi. Che, sulla base dell’altezza che potrebbero raggiungere, possono essere di prima, seconda o terza … grandezza. Questione di misure: S, M, L.

Non è indispensabile sapere di alberi, per scegliere un elemento-albero da un archivio d’immagini preconfezionato, cliccarci sopra e incollarlo sul monitor. Alzarlo, abbassarlo e ruotarlo può essere divertente, e un modo per farcelo stare fra una casa e una strada, oppure in un vaso, lo si trova. Con un bellissimo disegno in mano, poi, sarà altrettanto facile parlare ai cittadini di armonia di forme e volumi, magari sottolineando che il colore delle foglie d’autunno si sposerà molto bene con quello dell’asilo sullo sfondo.

Diversamente dagli alberi che frequento io, questi elementi arborei sono sempre bravi e belli. Non bevono, non crescono e non si ammalano. Simmetrici, perfettamente proporzionati. Mai un ramo secco, mai una foglia per terra.

Anche in quei bellissimi rendering che ci mostrano come saranno dopo 30 anni.

Lucio Montecchio

Facce da Bar

 

 

Oltre questa mia tastiera c’è il FaceBar, con le pareti blu e le foto dei clienti in vetrina. Come dal barbiere in Penny Lane.

Soprattutto in tempi di isolamento fisico da amici e parenti, il “Bar delle Facce” costa meno del telefono e spesso fa più compagnia, perché ti fa sentire parte di un gruppo, come le sere del mese scorso al Bar Centrale

Al Bar delle Facce ogni giorno è il giorno che vuoi tu.

Chiudi gli occhi, pensa al lunedì e i commenti sul calcio saranno abbondanti, anche in questo periodo di lockdown. In attesa di tempi migliori, c’è chi posta il video di un politico di grido che si fa recapitare a casa un gruppo di ragazzi per far fare una partitella spensierata al figlio.

Negli altri giorni cambia il soggetto, ad esempio si parla parecchio dei vantaggi della bava di lumaca come anti-age (eh, si, perché dovete sapere che la bava sa rallentare il tempo, come ben dimostrato dalla lentezza delle lumache), di quella lì di Sanremo che è brutta perché ha il naso rifatto, oppure delle possibili geometrie del nostro pianeta.

Le dinamiche della discussione sono sostanzialmente le stesse: si confrontano opinioni opposte, ci si insulta per un po’ e poi si da’ tutti ragione all’esperto di turno, che se non fosse che gli mancavano ventotto esami si sarebbe laureato con una tesi in chirurgia dell’esofago. Tanto, a cosa serve una laurea? Lui fa il macellaio già da quattro mesi, e la laurea se l’è conquistata sul campo alla faccia dei figli di papà che vanno all’Università.

Vi faccio un esempio: durante la serata dedicata a “piante, dadi e datteri” si presenta immancabilmente qualcuno con due foto sfocate di un albero che ha già deciso di salvare da un destino crudele, chiedendo di che specie si tratti e soprattutto di che cosa è malato e cosa fare. Perché, si sa, gli alberi sono sempre malati, basta cercare bene. Anzi, no, scusate, non sono mai malati, va tutto bene. Anzi, no, devo sentire un amico, che lui sa. Diagnosi per corrispondenza, insomma, ecco. Smart working! (che poi ho chiesto a Jonathan, e da loro non usano questo termine).

Ma torniamo a noi.

Nel tempo di cinque minuti e parte il “toto-opinione”.

A me interessa: “seguo”, nel frattempo faccio gli auguri di buon compleanno a un amico che non conosco, scusandomi (cioè chiedendo scusa a me stesso) del ritardo.

Torno nella pagina dopo venti minuti, osservo, sorrido e scrennshotto, pensando al fatto che al mio medico non spedirei mai la foto dei miei occhi arrossati, perché certamente mi risponderebbe “amico mio, devo vederti. Magari poi ti mando da un oculista, o da un epatologo, non lo so. Forse sono solo le grappe di ieri sera, ricordi? No, vero?”.

Per fortuna fra gli avventori c’è spesso Gregorio Rasputìn, il vecchio allenatore dell’Albignasego Football Club: lui sa, perché dieci anni fa curava la rubrica scientifica “Io sono io” nel Bollettino di una parrocchia che purtroppo oggi non esiste più per via dei cambiamenti climatici.

Rasputìn posa il calice, si pulisce il naso adunco con la manica e da sotto i capelli lunghi sentenzia annoiato “carenza idrica: dategli un buon insetticida!”. Si, come abbiamo fatto a non pensarci prima? Non piove da tre mesi e gli insetti vanno a bere succhiando dalle foglie, come dimostrò già nel 1987 quel tale lì, come si chiama? Beh, non importa, dai: ora che ci penso, me l’aveva già detto il mio imbianchino.

Questo è il momento tanto atteso, quello della coesione sociale: alziamo tutti il pollice urlando “Like” e brindiamo felici, dandoci delle gran pacche sulla fronte col palmo della mano.

Anch’io, sia chiaro.

Semplicemente, mi convinco per qualche minuto di non aver “mai aperto i libri alle mie spalle, che tra l’altro non sono neanche miei”, come ebbe a dire con orgoglio un personaggio interpretato da quel genio assoluto di Natalino Balasso, il quale chiudeva la questione con “e comunque adesso devo portar fuori il cane”.

Lucio Montecchio

 

L’albero – foresta

 

“Quello di cui i nostri timorosi compagni di viaggio non sembrano rendersi conto, dottore, è che fuori dalla vostra colonia c’è semplicemente una colonia più grande”

J.G. Ballard, Foresta di cristallo, 1966.

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Sono più che mai convinto che un albero sia luogo, un ambiente complesso frutto del lavoro di centinaia di specie che, sotto e sopra la corteccia, convivono secondo regole ed equilibri che non capiremo mai appieno.

Un sistema implicitamente e necessariamente dinamico in grado imparare, adeguarsi agli eventi e prepararsi al futuro. Perché la vita, si sa, è molto più fantasiosa di noi.

La quercia che ho di fronte ci ha messo nove secoli a diventare com’è, cambiando chissà quante forme. E così, quell’alberello nato finché Riccardo Cuor di Leone guerreggiava con Saladino è cresciuto, ha sbagliato, ha capito, ha provato in un altro modo e negli ultimi anni ha scelto di lasciar cadere qualche ramo molto grosso pur di far spazio a rami più sottili. E’ un problema? Non per lui, evidentemente.

Ma c’è di più: negli spazi più aperti, dove le branche si aprono quasi orizzontali creando un pianoro centrale, ha lasciato che foglie e rami diventassero dapprima humus e poi un vero suolo, nel quale lasciar crescere muschi, felci e giovani alberi che affondano le radichette nella sua parte più centrale, ormai marcescente.

Quando altri rami cadranno e lasceranno penetrare più luce, loro saranno pronti a crescere.

A prescindere dall’età e dalle dimensioni, questo “albero-foresta” è certamente un monumento: alle dinamiche della natura e a chi non ha avuto tempo o voglia di ingessarlo fra cavi, cavetti e puntelli.

 

Windsor, 10 settembre 2019

Lucio Montecchio